Barbara Nappini: «Ripensiamo il benessere animale per contrastare i danni della zootecnia»

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Foto: Unsplash.com

L’approccio industriale ha trasformato l’allevamento degli animali in zootecnia: questo ha cambiato tutto. Gli animali sono visti come macchine, l’allevatore diventa imprenditore agricolo, si incrementa necessariamente la meccanizzazione, la stabulazione permanente, l’omogeneità genetica (il contrario di biodiversità).

Con l’avvento della zootecnia si separa l’attività agricola dall’allevamento, col risultato che i contadini iniziano ad aver bisogno di fertilizzanti esterni per il loro terreno, mentre gli allevatori necessitano di mangimi e fieno per le loro bestie. Sul mercato questo ha portato piccoli allevatori a competere con produzioni enormi – industriali – che offrono prezzi bassissimi: ciò è dovuto al fatto che molti costi “nascosti” ricadono sulla collettività in termini ambientali, sanitari, sociali, ma anche culturali.

Crisi climatica, zootecnia ed emergenza sanitaria

La zootecnia ha fortemente sbilanciato il rapporto tra allevatori e animali, e più in generale, una cultura diffusamente coloniale e predatoria ha portato tutti noi ad avere un punto di vista alieno rispetto alla natura, e ha modificato la nostra percezione e la nostra relazione col vivente. L’affollamento, la prigionia, una vita brevissima, insomma le condizioni di estrema sofferenza in cui gli animali da allevamento intensivo sono costretti a vivere, hanno gravi ripercussioni di vario tipo: si stanno sviluppando nuove malattie trasmissibili agli esseri umani, si diffonde la pericolosa antibiotico-resistenza e le deiezioni animali (deiezioni di miliardi di animali: nella storia dell’uomo non c’è mai stato un numero così grande di animali allevati!) hanno un impatto rilevante in quanto clima alteranti.

Secondo David Quammen, la diffusione pandemica mondiale è riconducibile ad attività antropiche scellerate e insostenibili. In particolare Quammen si concentra su tre elementi:

  • l’omogeneità genetica dei capi d’allevamento, con conseguente fragilità, e l’incapacità di rispondere ai patogeni e ai cambiamenti ambientali;
  • la devastazione di ambienti naturali che sono preziose e sempre più rare aree di riequilibrio rispetto al nostro sfruttamento degli ecosistemi;
  • la globalizzazione, non in quanto estensione globale dei diritti umani, come ci sarebbe piaciuto, ma come libera circolazione di capitali e merci, dunque prodotti – ma anche animali – che attraversano continuamente il globo da un capo all’altro.

Ripensiamo il benessere animale

Oltre a sottolineare quanto l’allevamento intensivo incida sulla crisi climatica e sulla nostra salute, sarebbe onesto aprire anche una riflessione sul benessere animale. Non abbiamo certezze ma molte domande e non intendiamo sottrarci al dilemma – anche etico – che questo implica, sempre in un rapporto dialogico con tutti coloro che a vario titolo sono coinvolti nel tema: allevatori, trasformatori, aziende, pubbliche amministrazioni, consumatori, associazioni.

Il benessere animale (parola che non amiamo: “benessere”, perché anch’essa troppo “umana”, forse dovremmo essere capaci di “rispetto”!) è il risultato di molti fattori interconnessi: riguarda certo le pratiche di gestione, ma è necessario passare a un’analisi meno antropocentrica; finalmente si sta sempre più diffondendo un approccio che attribuisce grande importanza ai cosiddetti Indicatori di benessere animale (Animal-based measures) che prevedono l’osservazione diretta dell’animale e riflettono la sua effettiva risposta alle pratiche di allevamento e gestione. Osservazioni che ci auguriamo vengano recepite con urgenza dalla revisione legislativa dell’Ue in corso sul benessere degli animali...

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