Informazione, guerra e lavoro: come cambia il ruolo del reporter

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Pubblichiamo l’intervento di Emanuele Giordana sul numero in distribuzione  di Dinamo, che ringraziamo per l’autorizzazione,  rielaborazione di un tentativo di sintesi sul mondo dell’informazione, dei nuovi media e dei nuovi soggetti (nonché dei loro diritti) che ne fanno parte. Luci e ombre di un settore in forte evoluzione in cui la guerra entra – come sempre – a gamba tesa.

Mai come durante questo ennesimo conflitto, l’attenzione si è spostata anche sui tanti giovani reporter che si sono recati in Ucraina, a proprie spese, per documentare la guerra. L’interesse è forse purtroppo soprattutto economico visto che un free lance costa molto meno di un inviato. E se dovesse “cadere sul campo” – morto o ferito come già accaduto in passato – i giornali o le tv che se ne sono servite gli dedicherebbero un onorevole epitaffio, noncerto il dovuto rimborso alle famiglie. Molte cose si intrecciano in quella che appare come una svolta nel settore dell’informazione: una nuova legione di reporter, più o meno avvezzi alla pratica sul campo di una guerra, l’irritazione dei vecchi giornalisti in pensione che, strapagati, potevano forse essere (ma non sempre) più accurati, l’indipendenza dello sguardo, i social media come bacino allargato, la questione del denaro e delle tutele. Ecco un abbozzo di analisi.

E’ un fatto che le guerre del XXI secolo abbiano più occhi di quanti non le osservassero nel XX. Forse, dunque, più in grado di attenuare il famoso aforisma di Ivo Andrič secondo cui la prima vittima della guerra è la verità. Nel secolo scorso c’erano solo televisioni, radio e giornali con un piccolo esercito di professionisti. La fotografia aveva un ruolo fondamentale e con lei il piccolo schermo, entrambi in grado di restituirci le immagini e dunque un immaginario. Un immaginario per forza di cose limitato, proprio perché patrimonio di una categoria – in molti casi privilegiata – e dunque di uno sguardo abbastanza univoco, per quanto colto, formato e attento. Le cose cambieranno radicalmente con la diffusione massiccia di Internet alla fine del secolo scorso ma, almeno in Italia, l’informazione comincia in realtà a cambiare quasi trent’anni prima con un fenomeno diffuso e innovativo: la nascita delle cosiddette Radio Libere che una sentenza del 1974 libera dalle catene del monopolio. Sono i primi occhi – o meglio le prime voci – che accompagnano i magazine di nicchia, le pubblicazioni di settore, i fogli politici che fanno il contro canto (si diceva “contro informazione”) ai media tradizionali. Ma negli anni Novanta Internet inizia a farsi strada. Sorgono le prime piattaforme che faticosamente scavano in una rete in formazione il cui sviluppo diventa, agli inizi del nuovo secolo, velocissimo.

Nei primi dieci anni di questo secolo il vero balzo in avanti al giornalismo lo fanno fare i social network: Facebook nel 2004, Twitter nel 2006 e Whatsapp nel 2009. E’ una strada che prosegue da Instagram a TikTok e chissà verso che altro: già nel 2004 ci sono circa 14 milioni di blog! Questo sviluppo diventa la base di massa dello street journalism o giornalismo partecipativo, che nasce come movimento già negli anni Novanta del secolo scorso ma che si afferma prepotentemente nei primi anni Duemila con lo sviluppo dei social che aprono le porte a chiunque voglia dire, testimoniare, sottolineare, descrivere ciò che vede, sente, pensa. Questa forma di nuova informazione dal basso non inizia con una guerra: sono le grandi battaglie sociali, ambientali, i primi social forum a veder nascere reporter improvvisati ma in grado di restituire sguardi diversi. E’ col conflitto nei Balcani degli anni Novanta che questi giovani reporter – spesso a metà tra il giornalista e l’attivista – cominciano a osservare anche il dramma della guerra.

E’ una rivoluzione che non ha dunque quarantanni e la cui portata non ci è ancora chiara. E’ un cambio di passo da cui emergono luci e ombre. Lo sviluppo della tecnologia (e il restringimento del mercato del lavoro privilegiato del giornalista) non aprono solo la strada agli “aspiranti” reporter ma arricchiscono il mestiere di raccontare con nuovi strumenti. Intanto sta appunto cambiando il mercato del lavoro, un cambiamento che data proprio dagli anni Novanta con le prime grosse crisi dei quotidiani: comunicazione e informazione, un tempo riservate a una piccola élite chiusa, diventano materia per sempre più giovani laureati ma mentre aumenta la platea degli occupati – con contratti volatili o inesistenti – diminuiscono i salari. La vecchia élite dei giornalisti “col tesserino rosso” (che una volta distingueva i professionisti dai pubblicisti) si restringe con compiti soprattutto organizzativi e acquisti fuori dalle redazioni. Sorgono agenzie di servizio, piccole associazioni di free lance, giovani avventurieri dell’informazione che si fanno le ossa sul campo...

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