Il piccolo Xu Jian

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Sto: M. Canapini ®

I locali (prevalentemente di etnia Han), parlando al telefono, alzano di sei volte la voce rispetto al normale. La pratica dello sputo libero è cosa comune in ogni angolo dell’immenso paese.  Sabato mattina. La terza classe è di nuovo in moto. Il trenino di pendolari si immerge inesorabilmente nella pancia dello Jiangsu, sfiatando verso le campagne di Shanghai. Stretti canali si arrovellano con canaletti, canoe in legno battagliano contro chiatte in plastica, salici piangenti sfiorano le carcasse di pesci, a mollo nei fiumi. Nei pressi di un Hutong miracolosamente intatto, incontro i responsabili di Stepping Stone China, associazione che da anni tenta di migliorare, attraverso l’inglese e tour didattici mirati, l’educazione dei minori emigrati dalle aree rurali della Cina. Ogni persona qui presente - mi confermano - tempo addietro ha lasciato casa e stabilità, inseguendo il falso mito del benessere cittadino. Tante famiglie e pochi anziani sopravvivono come possono, lavorando a basso costo dentro industrie tessili o attività ristorative. Alcuni vivono in case donate dal governo, altri in condomini occupati immediatamente dopo il loro arrivo dallo Yunnan, o da altre regioni dell’entroterra cinese. Tra le pareti bianche dell’asilo gestito dalla Onlus, il piccolo Xu Jian, timidamente racconta qualche aneddoto della sua infanzia, trascorsa principalmente nello Gansu. “In alcuni villaggi c’è molta povertà e i miei genitori hanno deciso di emigrare qui a Shanghai per guadagnare qualche soldo in più. Vivo coi miei nonni. Mi piace molto studiare l’inglese e trascorrere tempo coi volontari”. Danno man forte due compagni di classe, Zhang Hao e Yang Xu, seguiti poi dalla restante scolaresca. Tra un moccio al naso e una partitella a Yahtzee, le giornate scorrono veloci. Nel retro di un ristorantino due cuochi gettano all’ortica quantità spropositate di cibo. Un netturbino dalla faccia coperta di fuliggine raccoglie da terra mozziconi di sigarette. Una bacheca della polizia recante la scritta police è chiaramente danneggiata e mancano le prime due lettere della parola. Rimane da leggere lice. I ricordi riemergono e nel bel mezzo di Shanghai ripenso agli slogan curdi urlati durante le proteste di Gezi Park, ormai tre anni fa circa. Ogni posto è Lice, ogni posto è resistenza. Le patate appena comprate sanno di detersivo. Una coppia di ballerini reclusa in un angolo della stazione volteggia elegantemente districandosi al suono di una musica che non c’è.

Visi più tondeggianti, occhi meno stretti, pelle più scura. La terza classe del treno riaffiora, discutendo pacatamente senza urlare: muta al ritmo dei chilometri. Arrivano nuovi inquilini e si spintona, si corre, si suda. Pigio il necessario, tento di capire chi è l’intruso che si è preso il mio posto. Mi alzo e rido, ridono tutti, mi risiedo a terra. Il treno di affolla, miscuglio di etnie e bambini a tracolla. Vengo avvistato, altre volte ignorato. Mi camuffo, respiro, lascio che la gente mi trascini a sé. Spuntano noccioline e panini, zampe di gallina cruda, uova sode dal colore fosforescente, cavallette abbrustolite. Birra calda, mal di schiena, conquiste millimetriche di spazi, schiamazzi, un’altra notte scivola via, la terra si colora di un rosso profondo. Spuntano risaie estesissime, acquitrini, stagni, campi coltivati, i primi terrazzamenti agricoli battuti dai piedi scalzi dei contadini. Una bimba, spinta dal padre, mi regala finalmente parole comprensibili: “nice to meet you”. Ma poi si blocca, forse erano le uniche che conosceva, ma mi accontento, felice dell’omaggio. Prendo appunti, strategia adottata nei momenti di sconforto. Uno dei pochi rimedi per suscitare curiosità e farsi accerchiare dalla gente. Qualcuno tento di decifrare i caratteri latini, altri offrono sigarette e grappa, rispondendo alle spiegazioni mute con un prolungato ohooo, misto di soddisfazione e ammirazione apparente. Puzzo come un sacco di rifiuti, zanzare e topi non danno tregua. Spalle e collo tirano un sospiro di sollievo.  L’itinerario è bloccato, pare non arrivare mai l’attimo dell’arrivoGioisco del tempo che non passa, perché forse è l’unica traccia di eternità possibile. Alcune ambulanti dai denti argentati propinano ai passeggeri delle pannocchie crude e sciroppo rosso per massaggi. Donne dell’etniaHmong, detta anche Miao, coi copri capi arancio verdi e le tuniche raggianti, trasportano canne di bambù tra palme piegate dal vento e rocce dalle forme astratte di mammut addormentati. Dicono che arrivando in aereo a Kunming, già quindici anni fa, sorvolando distese di fabbriche e ciminiere avevi l’impressioni di trovarti in una città strozzata da inquinamento e impalcature. Io, in agosto, ci arrivo in treno, ma ho come il presentimento che anche da qui non cambi nulla. L’esigenza di semplicità: un mercato popolare. 

Mantello di odori e suoni: lo sfrigolare degli ortaggi appena colti inzuppati nell’olio, le urla dei venditori, lo sbattere di un coltello sul tagliere in legno, il reparto dei semi che varia dal rosso vivo al giallo tenue, le anguille e serpentine d’acqua dolce a mollo in contenitori di plastica. Una di esse tenta la fuga sotto l’occhio pigro del padrone che preferisce dar fuoco al tabacco della pipa in legno anziché acchiapparla, concedendole la libertà. Teste di pesci giganti, acquitrini, polvere e calzetti marci. In alcuni angoli del mercato, come in Suk arabo del Medio Oriente, non filtra luce. Ranocchi e tartarughe in vendita, scoregge e rutti volanti in regalo. La partita a carte iniziata tre ore prima da quattro anziani alle porte del mercato procede senza sosta, stesse posizioni, stesse paralisi muscolari. I pochi musulmani, appartenenti all’etnia Hui, indossano la tipica papalina di lana detta Shashia, le donne il classico Hijab, intrattengono la folla con energia ringraziando gli acquirenti direttamente col termine arabo shukranMescolanze culturali. Piombano in mente le mani sul cuore e le tende fradice di Bab Al Salam, un campo sfollati visitato in Siria tre anni orsono, migliaia di km più a Est. Nei mercatini ti affidi fatalmente all’onestà dei proprietari, elargisci banconote da dieci yuan, senza esagerare, sperando nel giusto resto. L’integrità dei locali è più che ottima! Qualsivoglia mi imbatto in una signora vecchissima il mio sguardo cade senza preavviso sugli arti inferiori, alla ricerca delle ultime depositarie dei famigerati piedi di loto. Fino agli anni ‘50, per svariati motivi, un’antica usanza cinese imponeva ad alcune bambine piccole di avvolgersi i piedi con fasce strettissime come simbolo di eleganza e bellezza femminile. Come Su Xirong, che quando invecchiò, smise di camminare: i suoi piedi minuscoli non reggevano più il peso del corpo.

Divido lo spartiacque tra due carrozze con una famigliola in viaggio verso Nanning. Offrono un po’ di frutta secca, latte e noci. Premurosità che commuove. Il controllore chiede se voglia trasferirmi in una cabina con letto ma rinuncio, preferisco stare scomodo ma in buona compagnia, in questo esodo lento senza senso ricco di malinconia. Un ragazzetto fa pratica con l’inglese, arricchendo il suo di due parole e peggiorando il mio di quattro. La Cina sta sciamando via, si avverte nell’aria. Fulmini e saette sporcano il cielo limpido come fuochi d’artificio non autorizzati. Fiume verdastro, chiatte metalliche sul fiume YongJiang, displuvio di Nanning, ultima roccaforte. Una bandiera immensa delle Repubblica Popolare Cinese svetta imperterrita, inzuppata dal temporale. L’ultima sera, in parte, ho fatto la fine di Noè, il grande patriarca biblico, ritrovato nudo e ubriaco nella propria tenda. Benedico l’acqua fresca del lavandino e zompo al volo sull’ultimo treno diretto in Vietnam. Zàijiàn Zhōngguó! Xià Yigè! 

Diari estratti dal libro “Eurasia Express” (Prospero Editore

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