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La porta della pace
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Foto: M. Canapini ®
La città di Aleppo è sotto costante bombardamento da due settimane.
Al di qua della frontiera turca piove fuori e piove dentro, sopra fornelli, alimenti, scarpe, negli angoli bui gonfi di muffa. Non c’è troppa differenza coi campi sfollati siti poco oltre la collinetta di confine. A rimpiazzare le tende marce, scheletri di case con teloni logori e pezzi di lamiera. Gli aliti freddi dell’inverno bussano sulle porte di compensato. “Eravamo seduti alla nostra tavola, un giorno qualunque nel pieno della guerra. Un boato ha scosso l'aria e dal terrazzo di casa abbiamo visto piovere un barile incendiario proprio sopra il nostro palazzo. Siamo scappati così come eravamo, senza abiti, coperte, cibo. Ora non ho soldi nemmeno per comprare della frutta a mio figlio” racconta una mamma, mostrando i palmi delle mani vuote. Il figlio più piccolo mordicchia la buccia di un’arancia. Mancano materassi, coperte, vestiti pesanti. Fuori dall’abitato un ragazzo zoppica sotto la pioggia. Un aggeggio metallico è fissato alla gamba sinistra; le viti mordono l’osso. Scopro che un anno e due mesi orsono, a Homs, il frammento di una bomba gli ha disintegrato tibia e perone. Con la forza delle fede che solo pochi popoli racchiudono, il ragazzo barbuto protende le braccia al cielo e bisbiglia: Alhamdulillah.
Dentro uno stanzino della casetta numero tredici vivono cinque ragazzi. Il più grande avrà si e no 35 anni. Uno di loro, ferito gravemente ad entrambe le gambe, dice: “Se davo retta ai soldati del regime a quest’ora qualche medico filo Assad probabilmente me le aveva già fatte amputare. Fortunatamente alcuni miei compagni universitari sono riusciti a curarmi e rimettermi miracolosamente in piedi”. Tra i presenti c’è anche un giovane completamente ustionato e un ex-soldato del regime. Quest’ultimo ha disertato pochi mesi dopo l’inizio della rivoluzione. Ci mostra una cicatrice ovale che si espande dalla clavicola alla spalla: un foro di proiettile. Ha perso la mobilità del braccio e delle dita, “ma sempre meglio che sparare contro la mia gente” racconta a denti stretti. Mentre ci dirigiamo verso un centro di riabilitazione per amputati facciamo due parole con Husam Al-Arour, un uomo cordiale e socievole. “Ho trascorso cinque anni della mia vita in carcere perché in Arabia Saudita lavoravo per una tv islamica e sono stato accusato ingiustamente di terrorismo. Questa è una delle conseguenze nascoste di una dittatura. Non vedo la mia famiglia da mesi, ho troppa paura di essere catturato nuovamente e cosi mi tengo alla larga dalle zone calde del paese. Ad Hama mi aspetta mia moglie con i nostri tre figli. Si contano un milione di rifugiati solo qui a Reyhanli… c’è tanto da fare anche qui, purtroppo”.
Il doganiere turco è ben vestito. Giacca, camicia e cravatta d’ordinanza. Il furgoncino dell’associazione monzese “Insieme si può fare” procede a zig-zag, evitando le gomme dei camion lasciate a marcire e qualche rado cumulo di cemento. Un paio di famiglie attraversano il confine disseminato di mine antiuomo; trasportano un materasso, qualche secchio di plastica o un borsone di vestiti: è l’esodo implacabile di un popolo. Nel campo di Bab Al Salam, che in arabo significa “la porta della pace”, hanno trovato rifugio circa 13.000 persone, provenienti da Aleppo e zone limitrofe, da paesini disastrati dove il fango scorre come un fiume impetuoso. Nei posti di blocco, pochissime domande e ancor meno risposte. I miliziani rimangono immobili e torvi, nascosti dietro i sacchi di sabbia. Al centro di una rotatoria, poco oltre il cancello d’uscita del campo, svolazzano due bandiere nere del fronte Al Nusra, un folto gruppo armato affiliato ad Al Qaeda. Inoltrandomi nel cuore dell’accampamento, colgo tante cose: fossati di acqua salmastra, bambini soli, un minareto.
Per caso conosco Isham, 33 anni, che lavorava come insegnante in una scuola di Azaz. Racconta la sua storia in un ottimo inglese, una sigaretta a penzoloni sulle labbra: “Vivo qui da più di un anno. Prima ho combattuto al fronte per sei mesi e sono stato ferito ben tre volte: nel polso, nell’avambraccio e nel petto. Le cose ora sono cambiate drasticamente, anche con la presenza di pericolosi gruppi integralisti. Una volta stavo fumando tranquillamente per strada ed un gruppo di miliziani mi ha ordinato di gettare la sigaretta nel fuoco se non volevo perdere la mano. Loro sono un problema per tutti ma le persone che vedi qui, principalmente non scappano dai fondamentalisti islamici, bensì dai barili esplosivi sganciati dagli elicotteri di Assad. Aleppo è ridotta al lastrico”. Isham parla con calma, aspirando grandi boccate di fumo e rigettandole dalle narici del naso adunco. “Un grosso problema qui a Bab Al Salam è l’igiene, la pulizia, i bagni soprattutto! C’è una sola latrina, sia per donne che per uomini. Manca anche il latte per i più piccoli… le mamme spesso non allattano, risentono fisicamente del cibo scarso o non adeguato. Si contano già alcuni casi di denutrizione, per fortuna molto rari”.
Le ambulanze intanto sfrecciano veloci verso la frontiera turca. Un via vai costante da Aleppo al confine. Le tende sprofondano nella melma e stipate all’interno vivono dalle cinque alle diciassette persone che, quando la notte cala, si scaldano mani e piedi attorno ad una stufa d'acciaio. I ratti che infestano il campo sono portatori di malattie e infezioni ma il volto della guerra, soprattutto, sono i mezzi crivellati di proiettili ancora caldi. Chiedo cosa pensano i bambini di tutto ciò e Isham traduce, diligente: "Chiedono quando tornerà tutto come prima, quando verrà il giorno in cui potranno tornare nelle loro vecchie case e dormire finalmente tranquilli". Pare che non esista nulla all'infuori della sopravvivenza giornaliera. Luoghi dimenticati dove il dolore umano tocca l’apice dello sconforto.
Matthias Canapini

Matthias Canapini è nato nel 1992 a Fano. Viaggia a passo lento per raccontare storie con taccuino e macchina fotografica. Dal 2015 ha pubblicato "Verso Est", "Eurasia Express", "Il volto dell'altro", "Terra e dissenso" (Prospero Editore) e "Il passo dell'acero rosso" (Aras Edizioni).