www.unimondo.org/Guide/Informazione-e-Cultura/Educazione-allo-sviluppo/3.-L-educazione-possibile-145209
#3. L’educazione possibile
Educazione allo sviluppo
Stampa
“Non seguite me, seguite il bambino”, ricordava sempre Maria Montessori, donna lungimirante e attenta, che come molti in Patria non ha avuto la fortuna che meritava.
La discussione sul sistema scolastico ed educativo che trae spunto dal film documentario La educación prohibida continua oggi partendo da una considerazione: tanti – troppi – sono gli studi su “cosa sia un bambino”… Ma quanto si conosce di “chi siano i bambini”, non come gruppo omogeneo ma come singoli pulsanti individui? Angela Camargo, del Colegio Pachamama, tira fuori tutta la passione che ha in cuore quando pone questa domanda, ricordandoci che il centro dell’educazione è il bambino con i suoi bisogni, così diversi da quelli che abbiamo noi come adulti. I bambini nascono creativi, osservatori, curiosi. E a scuola possono accadere due cose, continua Erika Scheuerlei, argentina, educatrice alla scuola Olga Cossettini: si possono far germogliare queste capacità oppure frustrarle e lasciarle appassire.
L’essere umano ha una naturale propensione all’apprendimento, anzi, non può non imparare. E i bambini ne sono la dimostrazione vivente: continuamente e spontaneamente si interrogano sul perché delle cose. Attraverso i sensi percepiscono, immaginano, ragionano, creano, capiscono, fantasticano. E compito della scuola è quello di coltivare questi istinti naturali, non certo di zittirli. Anche se spesso accade effettivamente il contrario: via via che il bambino cresce perde la propria curiosità e la voglia di apprendere. Vero è che un bambino di 12 anni difficilmente quando esce da scuola prende in mano un libro; sono invece i bambini più piccoli a farlo, perché naturalmente predisposti a interessarsi a ciò che hanno di fronte, così sviluppando la propria mente e costruendo la propria personalità. In pochi anni si realizzano apparenti miracoli: i bambini imparano a controllare il proprio corpo, comunicare in più lingue, comprendere le principali regole della natura e le caratteristiche della propria cultura. Un processo complesso e meraviglioso che avviene in maniera incosciente, per conto proprio e senza uno sforzo che vada oltre le proprie possibilità.
Studi recenti sostengono che all’età di 5 anni il 95% dei bambini potrebbe essere considerato un genio: durante questi anni i bambini sono persone curiose, creative, che riescono a pensare in modo diverso e che hanno una mente aperta pronta a risolvere problemi molto diversi tra loro… Appena qualche anno dopo la percentuale di persone potenzialmente contraddistinte da queste caratteristiche è del 10%. La formazione scolastica a cui accedono disincentiva il loro lato onirico, diluisce l’immensa creatività e spegne l’immaginazione senza limitazioni (che tra l’altro hanno costituito tratti fondamentali dei grandi inventori e pensatori). Limitare la fantasia e castigare gli atti di ribellione è in questa prospettiva un controsenso, che mira a negare le esigenze più vere e profonde degli esseri umani che stanno schiudendosi.
Soprattutto durante i primi anni di vita il bambino ha una sorta di “maestro interiore” che lo spinge ad apprendere, scoprire, muoversi, partecipare, lavorare, ripetere comportamenti o smettere di farlo perché non lo ritiene più opportuno, conferma Ana Julia Barnadas, della Montessori Palau di Girona. I bambini sono piccoli investigatori, che agiscono per osservazioni sistematiche, errori e correzioni, passi chiave di ogni grande scoperta. Quello che occorre è offrire loro la possibilità di esprimere in modo diverso questi comportamenti, perché se avranno modo di continuare in questa direzione, domani saranno scientifici nel loro comportamento e creativi nel modo di esprimerlo. Occorre lasciarli liberi – liberi, per parafrasare Paulo Freire, di creare e ricreare idee anziché di consumarle.
In effetti la domanda posta dal pediatra Carlos González suscita in noi qualche dubbio: le molte cose che apprendiamo a scuola sono realmente necessarie per la nostra vita quotidiana? Una provocazione che spinge oltre, chiedendosi se sia possibile che la scuola non sia necessaria, ma conveniente. I metodi di insegnamento scolastico che si fondano sulla continua ripetizione – beninteso, non esclusivamente mnemonica – di concetti e conoscenze, trasformano le persone in ripetitori per i quali diventa assolutamente irrilevante la comprensione di ciò che viene espresso. L’apprendimento diventa un processo fastidioso e difficile, e abbandonarlo genera sollievo, perché tutto ciò che si apprende passa in secondo piano se non diventa parte del proprio processo decisionale e di scelta. Le informazioni possono essere immagazzinate nella nostra testa, in un libro o in un computer, ma la comprensione è uno strumento in continua crescita, che implica la creazione, l’impostazione di relazioni tra criteri, la risoluzione di problemi, la costruzione di nuove conoscenze.
Ecco perché proprio quei metodi che valorizzano i naturali processi di apprendimento sono quelli che bucano la membrana della passività e diventano realmente parte integrante del modo di agire e ragionare delle persone, dando la possibilità alle varie “genialità” di arricchirsi reciprocamente. Un apprendimento profondo deve essere fondato sull’interesse, radicato nella volontà e nella curiosità, aspetti che si originano ben oltre la frontiera della ragione. Il momento della scoperta è quello dell’apprendimento, e fa sì che il bambino non dimentichi più ciò che ha imparato con la propria esperienza. E già Aristotele sosteneva che “quello che dobbiamo imparare, lo impariamo facendo”. Ad ogni stadio del suo sviluppo l’essere umano, in un processo di apprendimento di successo, anticipa l’aspetto cognitivo con l’azione diretta ma, quello che accade nella maggior parte dei casi, è che la parte pratica dell’apprendimento è considerata “peggiorativa”, marginale, facoltativa quando non eventuale. Il compito dell’educatore, suggerisce però Carlos Wernicke (Fundación Holismo), dovrebbe semplicemente essere una costante sollecitazione a sperimentare, per suscitare la scoperta: “a la casa del tio escuela no venimos para jugar, pero jugando jugando se aprende mucho”.
Il movimento della scuola attiva si basa proprio su questo principio che già Piaget negli anni ‘50 aveva esplicitato, ma che fin dall’inizio del XX secolo era alla base di una serie di discussioni sbocciate dal filone della pedagogia: dalle scuole Montessori alle Waldorf, dall’esperienza britannica della Summerhill alle già citate riflessioni di Freire, senza dimenticare KilPatrick, Illich e Pestalozzi, solo per citare alcuni nomi. Tali movimenti intendevano sviluppare l’esperienza educativa concentrandola sulla libertà del bambino e sulla costruzione autonoma dell’apprendimento.
In effetti, come rileva Marìa Gabriela Albuja, della Escuela Activa Inka Samana, le scuole che favoriscono un approccio operativo, manipolatore, auto correttivo ottengono risultati straordinari. L’apprendimento nasce dalle domande e dal caos, gli interrogativi costituiscono intrinsecamente la capacità di apprendere. La scuola sembra, negli anni, aver silenziato le domande a favore delle risposte, un processo non lineare a favore di un curriculum programmato che colloca gli obiettivi educativi al di fuori dell’alunno: che sia un buon cittadino, che partecipi alla competizione della società. Il bambino comincia a percepire che la crescita interiore è motivata da qualcosa di esterno: si studia per passare l’esame, non per imparare o per trarne piacere, si impara per ottenere premi, traducendo così una relazione educativa in un succedersi di speculazioni che saranno sviluppati nell’età adulta. Quante volte abbiamo sentito ripetere la frase: “non vuoi essere qualcuno, un domani?”. La risposta che dimentichiamo è che i bambini sono già qualcuno, oggi.
I precedenti pezzi: