#2. L’educazione industriale

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Continuiamo la nostra riflessione sul delicato tema dell’educazione seguendo gli spunti forniti dal documentario La educación prohibida, raccolta di voci e riflessioni sullo stato della scuola attuale. E cominciamo da uno spunto di John Taylor Gatto, che fa risalire il problema nella comprensione della scolarizzazione obbligatoria a un “atto inopportuno”, ovvero il fatto che “un danno compiuto in una prospettiva umana è in realtà un bene in una prospettiva di sistema”.

Per capire meglio il senso di questa affermazione in una prospettiva educativa, il professore cileno Rafael González Heck ripercorre – provocatoriamente, ma vale la pensa seguire il suo ragionamento – l’origine della scuola come è giunta fino a noi, ovvero gratuita, pubblica e obbligatoria. Ne rintraccia la nascita in un preciso momento storico: la Prussia del dispotismo illuminato della fine del XVIII secolo, un modello bel lontano dall’educazione classica di Atene, quando non esistevano vere e proprie scuole, ma piuttosto momenti aperti, di piazza, intesi come spazi di riflessione, conversazione e sperimentazione e quando, strano ricordarlo oggi, l’istruzione obbligatoria era associata agli schiavi. Un modello, quello prussiano, più vicino a radici spartane, a un contesto in cui l’educazione era piuttosto assimilata a un addestramento militare, e lo stato si sbarazzava in fretta di coloro che non raggiungevano il livello sperato: le lezioni erano obbligatorie, le punizioni esemplari, e la condotta veniva “moderata” attraverso il dolore e la sofferenza.

L’intento per cui i monarchi prussiani, seguiti in breve tempo da molti altri Paesi, introdussero questo tipo di educazione fu quello di evitare rivoluzioni come quelle avvenute in Francia: il regime assolutista rimaneva saldo, e la scuola era basata su una chiara suddivisione di classi e caste, la cui struttura imponeva l’obbedienza e la disciplina. Scopo: preparare il popolo ad essere docile, obbediente, e pronto alle guerre a venire. Sudditi dunque, più che cittadini. Un modello che ha avuto rapida diffusione nel mondo sotto il vessillo dell’uguaglianza, quando però l’essenza stessa del sistema proveniva dal dispotismo, che si perpetuava in maniera non troppo latente nel carattere elitario e nella divisione delle classi. È quindi in un contesto positivista, retto da un sistema industriale, che la scuola si sviluppa, articolando un sistema in cui l’obiettivo coincide con la produttività: massimo risultato, minore sforzo, leggi scientifiche e regole generali. La scuola era la risposta ideale per gli imprenditori, e dimostrazione ne è il fatto che uomini come Andrew Carnegie e John Rockfeller finanziarono la scolarizzazione obbligatoria attraverso proprie fondazioni.

Ma la scuola rimane ancora uno strumento per formare lavoratori utili al sistema e perché la cultura rimanga sempre uguale e si ripeta, conservando la struttura attuale della società? Effettivamente la produzione industriale in catena di montaggio era un sistema perfetto che si sviluppava parallelamente a quello scolastico: l’educazione di un bambino e la manifattura di un prodotto, un processo standard, passaggi obbligati, ordine prestabilito. I ragazzi, separati per generazioni in diversi gradi scolastici, lavoravano su determinati elementi, contenuti che avrebbero assicurato l’esito desiderato.

Un processo di cui ogni persona ha in carico una parte, avendone raramente chiaro il senso generale. In effetti il ragionamento ci riporta dinamiche familiari: curricula scolastici scritti per lo più da amministrativi anziché da insegnanti, docenti diversi ogni anno e per ogni materia, numeri elevati di alunni, meccanicismo.

E’ possibile però, in una classe di 30 alunni, immaginare che ciascuno desideri fare la stessa identica cosa nello stesso momento, come in una catena di montaggio taylorista? L’equazione, nel periodo storico in questione, emerge chiara: industria – esercito – scuola, gestiti con lo stesso sistema. Sono osservazioni che possono suscitare indignazione a chi legge oggi questa equazione, ma in qualche modo sembrano supportate dal ripetersi di atteggiamenti ricorrenti: si pensi ad esempio al fatto – banale – di radunarsi in fila per due, dal più grande al più piccolo.

Quale atteggiamento veicolano queste dinamiche? Il rispetto delle regole, è certo, ma anche un controllo sociale: una fabbrica di cittadini obbedienti, consumisti ed efficaci. Il passo è breve a che gli alunni vengano convertiti in numeri, votazioni, statistiche. Una disumanizzazione progressiva di tutti i protagonisti del sistema scolastico, non solo degli alunni. Gruppi omogenei, contenuti omogenei, risultati da ottenere omogenei. Una considerazione alquanto paradossale se pensiamo che di fatto, come adulti, non tutti conosciamo le stesse cose, non tutti svolgiamo lo stesso lavoro, non tutti ci dedichiamo agli stessi interessi, cosa che invece, da bambini e dentro la scuola, viene considerato obiettivo fondante: fare tutti le stesse cose e farle ugualmente bene.

Viene logico chiedersi, allora, se la scuola così concepita abbia capacità sufficienti per rispondere alle necessità individuali. Se la scuola istruisce soltanto e chi non apprende rimane fuori dal gioco ciò implica che, in qualche modo, il sistema educativo si risolve in un mero sistema di esclusione sociale, che seleziona le élites che domineranno i sistemi produttivi, economici, politici, comunicativi. Se vale davvero questo assioma, riflette Jordi Matei, della Xell - Red de Educaciòn Libre, allora le persone per cui la scuola non “sembra adeguata” sono irrimediabilmente destinate a un lavoro – e a una vita – più precari.

Questo ci porta inevitabilmente a ragionare se anche oggi, nella nostra scuola, non sia rimasto qualcosa di troppo dell’essenza originaria prussiana: testi standardizzati, divisione per età, lezioni obbligatorie, curricula svincolati dalla realtà, sistema di votazione, pressione esercitata su insegnanti e alunni, sistema di premi e castighi, orari rigidi, chiusura e separazione dalla comunità, struttura verticale… tutto ciò fa ancora parte della scuola del secolo XXI.

A questo punto sembra che la scuola non sia affatto luogo per l’educazione, la prima essendo una “mappa della conoscenza” e la seconda caratterizzandosi invece come “il territorio dove tutto l’apprendimento accade”.

Cos’è dunque una buona educazione? Fare in modo che la maggiore quantità di bambini, per superare barriere imposte da altri, apprenda strumenti in fondo poco significativi? Ma l’obiettivo dell’educazione non era raggiungere una buona qualità della vita?

Ci lasciamo quindi con un esercizio, un “compito a casa”: dimenticare per un momento tutto ciò che sappiamo sulla scuola e tutto ciò che ci è stato detto importante sapere. Empezemos de nuevo.

Anna Molinari

#1. L’educazione proibita

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