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STOP alle mutilazioni genitali femminili
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Foto: Unsplash.com
Quando ha detto no al taglio ed è scappata dal suo villaggio, in Kenya, Nice aveva solo 9 anni. La prima volta, lei e sua sorella maggiore rimasero tutta la notte su un albero. Quando i parenti le trovarono, le picchiarono. La seconda volta, la sorella si rifiutò di nascondersi e si lasciò tagliare. “Mi disse che era giusto che a sacrificarsi fosse lei che era la più grande. Che così forse, mi avrebbero lasciata in pace”, racconta la giovane donna Masai.
Per le famiglie Masai, la mutilazione genitale femminile è un rito – che non ha nulla a che vedere con la religione – che trasforma le ragazze in donne. Per le donne è una pratica che permette di essere socialmente accettate e di essere considerate degne e pronte per il matrimonio. E a cui si sottopongono nonostante la paura, il dolore, il pericolo.“Avevo paura di morire. Qualcuna era morta a causa del taglio. E temevo che, se anche non fossi morta, non mi avrebbero più mandato a scuola e mi avrebbero costretto a sposarmi” spiega Nice e aggiunge: “Un’insegnante che avevo avuto mi aveva aperto gli occhi sulle mutilazioni. Proveniva da una comunità in cui non erano praticate e mi spiegò perché era una cosa bruttissima e sbagliata. Così decisi di sfidare la tradizione”.
È il racconto di Nice, una giovane donna Masai del nord del Kenya, che ha sfidato la tradizione promuovendo nelle comunità la sostituzione della mutilazione genitale con altri riti che accompagnano il passaggio all’età adulta delle bambine. Realizza il suo impegno con l’organizzazione AMREF ed è la testimonial della campagna d’informazione Dalla Parte di Nice, promossa in Italia dal gruppo di giornalisti Hic Sunt Leones e che si propone di raccontare storie di violenza subita e di riscatto di sette bambine e ragazze che, in varie parti dell’Africa, hanno spezzato la catena della tradizione delle mutilazioni genitali femminili, del controllo maschile sul corpo e sulla vita delle donne e bambine.
Lo ricordiamo in questo mese di febbraio, in cui si è celebrata la Giornata Mondiale contro le Mutilazioni Genitali Femminili. La pratica, che causa effetti terribili e irreversibili nel fisico e nella psiche delle bambine, è ancora diffusissima. "Escissione", "circoncisione femminile", “infibulazione”: diversi sono i linguaggi usati, così come i livelli di gravità della mutilazione praticata. L’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce le mutilazioni genitali femminili come “qualunque procedura che includa la rimozione parziale o totale dei genitali esterni femminili, o qualsiasi altra ferita agli organi genitali femminili, inferta senza alcuna ragione medica”.
Alla pratica sono strettamente correlati fenomeni come i matrimoni precoci e l’abbandono scolastico. Già nel 2016, le Nazioni Unite ci ammonivano con dati spaventosi: almeno 200 milioni di donne e ragazze nel mondo hanno subito qualche forma di mutilazione genitale. Le bambine fino a 14 anni di età sottoposte a mutilazione genitale sono 44 milioni; le bambine più piccole in questa fascia di età, sono “tagliate” soprattutto in Gambia, con una percentuale del 56%, in Mauritania con il 54% e in Indonesia, dove circa la metà delle ragazze di età pari o inferiore a 11 anni ha subito tale pratica.
In tre paesi del mondo, nascere donna significa dover subire con una certezza che quasi non lascia scampo, una forma di mutilazione genitale: in Somalia (98%), in Guinea (97%), in Gibuti (93% delle donne). Oggi, ogni anno sono circa 4 milioni le ragazze e le donne che rischiano di essere sottoposte a queste pratiche. Tuttavia, negli ultimi anni c’è stata una riduzione dei casi grazie all’adozione da parte di numerosi Stati dell’Africa Subsahariana di leggi di contrasto. Ad esempio, il Sudan ha vietato l’anno scorso questa pratica; in Somalia nel 2018 si è tenuto il primo processo contro le mutilazioni genitali femminili; tante sono le storie di attivismo delle donne all’interno delle proprie comunità.
Quest’anno, uno studio dell'Eige - Istituto europeo per l'uguaglianza di genere, rivela che anche in Europa sono tante le bambine e le ragazze che, tra le comunità d immigrati, rischiano di essere sottoposte a mutilazioni genitali femminili. L’indagine ha coinvolto quattro Stati dell’UE - Danimarca, Spagna, Lussemburgo e Austria - con focus group all’interno delle comunità interessate da questa pratica: Egitto, Sudan, Somalia, Iraq, Iran , Eritrea, Guinea, Guinea-Bissau, Senegal, Mali, Nigeria, Gambia ed Etiopia. Tra i quattro Stati, solo il Lussemburgo riconosce le mutilazioni genitali femminili come motivo per concedere l’asilo.
Si stima che siano 600 mila in Europa le donne e le ragazze che hanno subito queste pratiche (Parlamento Europeo, 2020), di circa 80 mila in Italia (Università Bicocca 2019). Queste pratiche costituiscono una grave forma di violenza basata sul genere. Tra le conseguenze ci sono emorragie gravi, problemi urinari, cisti, infezioni, rapporti sessuali dolorosi, altre disfunzioni sessuali, complicazioni durante il parto, aumento del rischio di morte prenatale. Le vittime delle mutilazioni spesso soffrono di depressione, ansia, senso di incompletezza.
Sono molti gli enti e le persone nel mondo che continuano a battersi per eliminare questa pratica. «Le ultime stime sul numero di ragazze a rischio mostrano che le leggi e le campagne stanno funzionando. Possiamo vincere la battaglia contro le mutilazioni genitali femminili», ha detto Carlien Scheele, direttore di Eige. Sostenere questi sforzi è importante.
Lia Curcio

Sono da sempre interessata alle questioni globali, amo viaggiare e conoscere culture diverse, mi appassionano le persone e le loro storie di vita in Italia e nel mondo. Parallelamente, mi occupo di progettazione in ambito educativo, interculturale e di sviluppo umano. Credo che i media abbiano una grande responsabilità culturale nel fare informazione e per questo ho scelto Unimondo: mi piacerebbe instillare curiosità, intuizioni e domande oltre il racconto, spesso stereotipato, del mondo di oggi.