CEDAW. Da 35 anni contro la discriminazione della donna

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35 anni fa, il 3 settembre 1981, entrava in vigore la Convenzione ONU sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro la donna. Quelle disposizioni hanno esattamente la mia età. Potrei quindi dire, da cittadina italiana, di aver usufruito in pieno della loro attuazione nell’imporre agli Stati (e dunque anche all’Italia, Paese ratificante) di fornire eguale trattamento ai cittadini e alle cittadine, e di impegnarsi a colmare il gap esistente tra i generi garantendo pari opportunità. La cosiddetta CEDAW, dalle iniziali in inglese di “Convention on the Elimination of Discrimination Against Women”, contiene i principali diritti civili, politici, sociali, economici e culturali, declinandoli specificatamente al femminile anziché attribuirli a un asessuato “essere umano”. Difatti a livello internazionale era stato evidentemente riscontrato che l’assenza di una specifica menzione delle donne nell’attribuzione di determinati diritti umani era troppo spesso equivalsa alla loro mancata concessione.

E se in Italia il voto attivo e passivo è un diritto scontato per le donne della mia generazione, così come l’accesso alle professioni, agli incarichi e agli uffici pubblici, solo recentemente altre riforme hanno determinato il possibile accesso delle donne nelle diverse arme militari e inciso ancor più significativamente sul diritto di famiglia, ad esempio garantendo il congedo di paternità in alternativa a quello di maternità. Eppure l’Italia non appare di certo avere le carte in regola sull’eliminazione della disparità uomo-donna. Una discriminazione che pesa sullo sviluppo economico del Paese, ma soprattutto sul suo tessuto sociale, in preda ad ansie tra i generi che scadono in violenze e laddove manca ancora equità nel conferire incarichi e salari lavorativi. Il doppio standard di giudizio sulla vita di un uomo o di una donna sembra infatti ripercuotersi analogamente anche sulla percezione della figura professionale femminile, laddove ad esempio alle elezioni amministrative della capitale della scorsa primavera la scelta di candidarsi dell’esponente di estrema destra Giorgia Meloni è stata criticata non tanto in ragione di opportunità politiche o di strategie di coalizione bensì per la sua imminente maternità con i determinati obblighi annessi. Peraltro, proprio la strumentalizzazione della sua maternità era giunta in febbraio da parte della stessa candidata che aveva comunicato di essere incinta nel corso del cosiddetto Family Day.

La pratica delle dimissioni in bianco, l’imposizione da parte del datore di lavoro di non avere figli, i mancati scatti di carriera e di stipendio (che in ogni modo, a parità di impiego e ruolo, rimane differente tra uomo e donna) sono solo alcune delle discriminazioni attuate oggigiorno nel mondo del lavoro in Italia, che rendono ancora tanto lontana l’attuazione piena della Convenzione Cedaw. Inoltre non esiste affatto alcuna parità uomo-donna nella ripartizione del lavoro domestico e nella cura di bambini, e negli organi rappresentativi e dirigenziali il numero delle donne è nettamente inferiore a quello degli uomini. Non ci si poteva in effetti aspettare di più in un Paese che poche settimane prima dall’entrata in vigore del Trattato, con legge 442 del 5 agosto 1981, aveva abrogato dal codice penale il “delitto d’onore” e il matrimonio riparatore, e solo nel febbraio 1996 (legge 66) aveva riformato il Codice Rocco trasformando la violenza sessuale da reato contro la morale a reato contro la persona, con modifiche rilevanti dal punto di vista giudiziario. Il dibattito da troppo tempo aperto sulla necessità di “quote rosa”, ossia di introdurre obbligatoriamente figure femminili tanto nella politica quanto negli enti pubblici secondo una percentuale proporzionale da rispettare, appare una magra conquista ormai superata dalle riflessioni sulle pari opportunità e sull’empowerment (rafforzamento del ruolo) della donna portate avanti a livello internazionale. Dalla metà degli anni Settanta la donna è passata dall’essere considerata una semplice beneficiaria dello sviluppo emancipativo a partecipante attiva dello stesso processo, e all’alba del Terzo millennio è invece emersa la necessità di integrare in ogni politica e pratica diritti, interessi, bisogni e opportunità sia delle donne che degli uomini. Quest’ultima visione, il “gender mainstreaming”, tenta proprio di superare una discriminazione al contrario, ossia di selezione di una donna in quanto tale (l’esempio più immediato è proprio quello delle quote rosa) come beneficiaria o attrice di un’azione solo in quanto donna e non perché capace o necessitante l’azione. Anche la Cedaw può essere intesa come uno strumento che non guarda affatto a una integrazione dei diritti delle donne e degli uomini (e delle loro implicazioni) in ogni azione pianificata di uno Stato, ossia nella legislazione, nelle procedure o nei programmi in tutti gli ambiti e a tutti i livelli; tuttavia a 35 anni dalla sua entrata in vigore tale Convenzione rappresenta senz’altro una indicazione su uno standard di tutela perlomeno normativa, se non reale, dei diritti delle donne nel mondo. Probabilmente l’eliminazione di una delle discriminazioni più lunghe della storia dell’umanità costituirà ancora un processo arduo: educazione, rispetto e condivisa consapevolezza possono fare la differenza nello sviluppo del processo.

Miriam Rossi

Miriam Rossi (Viterbo, 1981). Dottoressa di ricerca in Storia delle Relazioni e delle Organizzazioni Internazionali, è esperta di diritti umani, ONU e politica internazionale. Dopo 10 anni nel mondo della ricerca e altrettanti nel settore della cooperazione internazionale (e aver imparato a fare formazione, progettazione e comunicazione), attualmente opera all'interno dell'Università degli studi di Trento per il più ampio trasferimento della conoscenza e del sapere scientifico.

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