In Kosovo tutto bene? (I PARTE)

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I PARTE - A distanza di anni dagli accordi di Schengen ho dimenticato cosa sono le frontiere di terra, questa è la verità. Accetto quindi con malcelato nervosismo le ore di attesa in coda ai caselli nella direzione del Kosovo, il più particolare degli Stati fuoriusciti dall’implosione della Jugoslavia.

Sono tanti i 1309 Km che separano Trento dalla città kosovara di Pejë, Peć in serbo.

Sono poche le 21 ore di bus, se ci sono da attraversare le frontiere di Slovenia, Croazia, Serbia e Kosovo, ognuna delle quali scrupolosamente salvaguardata da una polizia attenta a concedere il passaggio a singhiozzi ben predisposti. Che sia una delle più significative pratiche per evidenziare il passaggio da uno Stato all’altro è un pensiero che si affaccia presto in mente, quasi in un atto di estrema denuncia a transfrontalieri, turisti e lavoratori emigrati che uno Stato jugoslavo unico non esiste più.

Sono in un viaggio all’insegna della cooperazione internazionale, ed è questa anche la risposta più accorta che va fornita ai poliziotti serbi alla frontiera kosovara che si informano sulle ragioni del passaggio in Kosovo. Una destinazione sinora non dichiarata alle autorità serbe, e altrettanto prudentemente protetta dalla consegna di un documento di identità anziché di un passaporto, timbrabile, all’ingresso nel Paese. Accorgimenti atti a evitare il rischio di un diniego del nuovo passaggio in Serbia al ritorno dall’esperienza in quel territorio popolato da kosovari di lingua albanese proclamatosi indipendente nel febbraio 2008 e a cui il governo di Belgrado non ha ancora dato alcun riconoscimento formale.

Sono appena 108 Stati sui 193 della comunità internazionale che lo hanno fatto, un numero che coglie alleanze e interessi che sembrano aver risuscitato i termini del confronto bipolare della guerra fredda. Da un lato gli Stati Uniti, percepiti dai kosovari come liberatori dal giogo serbo, che continuano ad assicurare l’indipendenza e la stabilità della Repubblica sotto lo scudo delle forze internazionali NATO. Dall’altro lato proprio il governo di Belgrado, affiancato e protetto da una storica amicizia con la Russia, fortificata dal comune credo ortodosso. Nonostante la sanguinosa guerra combattuta con Pristina tra il 1996 e il 1999 sia stata chiusa dall’iniziale creazione di un protettorato internazionale poi trasformatosi in un vero Stato indipendente, Belgrado non rinuncia a parole all’intento di ricomporre la Grande Serbia storica di cui anche il Kosovo ha fatto parte, se non altro per la memorabile battaglia del 1389 contro l’Impero Ottomano sulla “Piana dei merli”, che non a caso in serbo si dice “Kosovo Polje”, espressione che ha dato nome alla regione dove venne combattuta. Questo leggendario scontro, in cui perirono sia il Principe serbo Lazar Hrebeljanović che il Sultano turco Murat I, diede inizio agli oltre quattro secoli di buia dominazione turca nei Balcani e i serbi convertirono il tragico evento nella chiave di volta del proprio orgoglio nazionale e del riscatto. Nondimeno la presenza della sede del Patriarcato della Chiesa ortodossa a Pejë/Peć, in territorio dell’islamico Kosovo, non rende di certo facile l’allentamento di rapporti diplomatici tanto tesi tra Belgrado e Pristina. Una realtà che si è toccata con mano qualche anno fa, nell’ottobre 2010, il giorno dell’insediamento del nuovo patriarca serbo Irinej, accolto da una Peć coperta di bandiere albanesi e cartelli che ritraevano Irinej con la scritta “Criminale di guerra”. Ben più “rocambolesco” è stato poi l’accesso delle autorità serbe al monastero dato il rifiuto accordato al loro passaggio via terra o aerea sul territorio kosovaro fino al monastero di Peć.

Ed è proprio a Pejë/Peć che il nostro bus è diretto. Una città di 100 mila abitanti circa situata nel Kosovo occidentale, capoluogo della regione del Dukagjin e tradizionalmente, ossia prima della guerra della fine degli anni Novanta, multietnica, con cittadini serbi, albanesi, bosniaci, rom, ashkali ed “egiziani”. Ora i serbi sono praticamente scomparsi, gli albanesi sono pressoché la totalità della popolazione e i bosniaci costituiscono una minoranza “protetta”, ad esempio permettendo l’insegnamento della lingua bosniaca a scuola. I rom, gli ashkali e gli “egiziani” (racchiusi nell’acronimo RAE), sul territorio da tempo immemore, rappresentano le comunità ai margini della società che, in un Paese con una economia debole, una disoccupazione alle stelle e supportata dalle rimesse degli emigranti e dagli aiuti internazionali, equivale all’assenza di beni per il fabbisogno quotidiano, di una casa confortevole e con servizi igienici, di un lavoro che esuli adulti e bambini dall’accattonaggio o dall’assistenzialismo. È sull’ideazione di una comunità unita che si prenda cura di tutte le sue minoranze che il Kosovo sta cercando di puntare, pur con alcune comprensibili contraddizioni relative alla presenza serba sul territorio; una strada questa auspicata anche da quella parte della comunità internazionale, governativa e non, che sostiene le fragili strutture del nuovo Stato. È per questo che anche noi siamo lì. (Continua domani con la II PARTE)

Miriam Rossi

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