In Kosovo tutto bene? (II PARTE)

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I PARTE

II PARTE - A dispetto di quanto ci si potrebbe aspettare, la presenza della forza militare internazionale KFOR (Kosovo Force) a Pejë/Peć appare discreta, addirittura impercettibile se non fosse per la camionetta mimetica di tanto in tanto parcheggiata davanti al centralissimo hotel Dukagjini. “Si fa fatica a riconoscerlo” dicono i peacekeeper che intervennero sul territorio durante la guerra: allora l’hotel era stato trasformato nel quartier generale delle operazioni NATO nella città e l’intera piazza su cui si affaccia era circondata da un muro invalicabile di filo spinato, attentamente piantonato. Da allora sono passati 15 anni e la Kfor a Pejë/Peć, a guida e a preponderanza italiana ma con unità austriache, moldave e slovene, ha ridotto i propri uomini e si limita a dominare la collina sopra la città dal cosiddetto “Villaggio Italia”, palesando la mancata necessità di un presidio militare in città. Poche sono anche le auto a targa EULEX, la missione UE che dal 2008 è andata a sostituire quella ONU (UNMIK) a coadiuvo delle autorità kosovare nella costruzione dello Stato di diritto del nuovo Paese.

Appare così “normale” la vita a Pejë/Peć.

Per quanto può esserlo vivere in un Paese che negli ultimi anni ha ricostruito tutte le proprie moschee, bruciate durante la guerra.

Per quanto all’assenza di servizi essenziali e di base legati alla sanità o all’amministrazione pubblica si contrapponga la più moderna tecnologia informatica che rende wifi ogni rete pubblica e possessori di uno smartphone anche i più indigenti.

Per quanto i serbi, ora ridotti a una minoranza di poco più di 100mila persone, siano rinchiusi in enclave ben circoscritte, dei quali la metà nella parte settentrionale del Kosovo, nel territorio contiguo al resto della Serbia che arriva fino alla città di Mitrovicë, simbolo di questa separazione che vede a nord del fiume Ibar i serbi, a sud gli albanesi kosovari. Una comunità che sopravvive di fatto solo grazie ai finanziamenti di Belgrado e alla forza di protezione internazionale. Sono però paradossalmente proprio i monasteri serbi-ortodossi a dar mostra dei loro preziosi mosaici, reliquie e dipinti secolari tanto nel Patriarcato di Peć quanto nel monastero di Dečani, annoverato anch’esso come patrimonio dell’Unesco, quasi a evidenziare ancora una volta come la storia della Serbia sia indissolubilmente legata alla regione del Kosovo.

Per quanto si paghino 20 centesimi di euro per un filone di pane, 70 per un burek, la tipica sfoglia ripiena alla carne o al formaggio. Sì perché in Kosovo si paga in euro, adottato unilateralmente da Pristina come moneta corrente nel 2002 quando la Germania passò dal marco (adottato al momento della proclamazione dell’indipendenza da Belgrado) alla moneta unica europea. Un altro elemento che denota il forte impatto e apporto economico di organizzazioni governative e non, aziende e Stati stranieri, in un Paese che non è riuscito ancora esprimere una propria moneta nazionale.

Indubbie le ragioni che hanno indotto la cooperazione decentrata trentina a intervenire con progetti di sviluppo in questa specifica regione del Kosovo. La similitudine geografica è palese: basta alzare lo sguardo dal piccolo rivolo del fiume Lumbhard che attraversa il centro abitato verso le maestose e verdi montagne che si intravedono a ovest, in Val Rugova. La sua valorizzazione in chiave turistica può rappresentare il fiore all’occhiello dell’amministrazione locale non solo per migliorare la debole economia del territorio, ma anche per contribuire a diffondere nella comunità una cultura di pace che alimenta a sua volta il turismo e i suoi proventi. Un esempio in tal senso viene proprio dal Trentino-Alto Adige, la cui conflittualità fu depotenziata durante e dopo l’elaborazione del noto secondo Pacchetto per l’Autonomia negli anni Settanta anche grazie alla condivisa necessità di una pace per favorire le entrate del turismo.

Una pace di questo genere appare possibile in Kosovo a soli 15 anni dalla fine di un conflitto fatto di episodi di pulizia etnica, stupri, torture e abomini di ogni genere? Se pochissimi anni fa tra l’altro la presenza ingombrante dei reduci di guerra rendeva difficile l’avvio di qualsiasi forma di dialogo e di superamento degli schemi di confronto con il “nemico”, oggi continuano comunque ad avvertirsi sentori di una situazione che ancora stabile non è. L’opzione di una trasformazione dello Stato in una regione autonoma dell’Albania non viene neanche pronunciata per i timori di un assorbimento e di un diniego di quell’autodeterminazione ottenuta. Tantomeno la possibilità di un ritorno sotto il controllo della Serbia appare reale, e non solo per una scelta di politica interna. La condizione di un Paese che ancora ospita sul proprio territorio milizie di eserciti stranieri, seppur “amici”, che si affiancano alla presenza di ong, interventi governativi di cooperazione, investimenti di aziende straniere, nonché l’assenza di una propria moneta nazionale e la posizione di Stato non pienamente riconosciuto dall’intera comunità internazionale (diversamente dagli altri fuoriusciti dall’implosione della Jugoslavia) non possono che rendere ancora più difficili questi primi incerti passi del Kosovo indipendente.

Miriam Rossi

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