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Dall’apartheid alla nazione arcobaleno: la lezione di Madiba
Riconciliazione
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La Giornata Internazionale per i Diritti Umani che ricorre il 10 dicembre, quest’anno non poteva essere celebrata in modo più opportuno, con l’omaggio reso dal mondo intero a Nelson Mandela. È stato uno stadio gremito di quasi 100mila persone a salutare “Madiba”, lo stesso stadio in cui tenne il suo primo discorso dopo la liberazione dalla quasi trentennale prigionia e in cui ha fatto la sua ultima apparizione ai mondiali di calcio dell’estate del 2010. È stata la città di Johannesburg, la più popolosa del Sudafrica, e in particolare la township di Soweto dove è stato costruito lo stadio, nota per il massacro del 1976, a riunirsi attorno all’ex presidente del Sudafrica. È stata la consacrazione nella storia di Mandela a padre della lotta all’apartheid, la più lunga, efferata e istituzionalizzata violazione dei diritti umani che il mondo abbia mai conosciuto. Un riconoscimento condiviso a livello internazionale, come la presenza di un centinaio dei capi di Stato e di governo di tutto il globo dimostra chiaramente, che rende la scelta di questa data per le celebrazioni della sua scomparsa nient’affatto casuale.
Il Sudafrica ha costituito per quasi 50 anni un baluardo delle violazioni dei diritti umani: nel secondo dopoguerra, tanto più la comunità internazionale si dotava di documenti e strumenti di tutela dei diritti umani a livello globale, tanto meno il governo di Pretoria si adeguava a essi, moltiplicando anzi le disposizioni della normativa di segregazione razziale che andavano a regolare ogni aspetto della vita politica, sociale, economica dei sudafricani. È impressionante ricostruire questo percorso, seppur a grandi linee.
Era il 10 dicembre del 1948 quando l’Assemblea Generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite proclamava la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, un primo documento in materia che palesava la condivisione a livello internazionale del principio secondo il quale “tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”. Un ideale verso cui tendere, si disse allora, e da cui invece il Sudafrica si allontanò a gran passi. Solo pochi mesi prima il governo di Pretoria aveva assunto ufficialmente la politica di apartheid, ossia di “separazione” fra bianchi da una parte, e neri e generici “colorati” dall’altra. Postilla logica di tale divisione era il riconoscimento di diritti e libertà solo per la parte bianca della popolazione, l’unica riconosciuta dotata di “dignità umana”, e l’introduzione di una serie di norme razziali e repressive atte a fortificare questa dominazione razzista che coprivano le più svariate materie: dalla proprietà della terra alla libertà di movimento e di insediamento, dall’assegnazione dei posti di lavoro ai rapporti sessuali, dai diritti di associazione al sistema elettorale. Dunque mentre il Sudafrica nel 1949 metteva fuorilegge i matrimoni misti e introduceva l’anno seguente l’“emendamento sull’immoralità”, a proibizione dei rapporti sessuali interraziali, in sede ONU si iniziava ad avviare il dibattito in materia di parità di genere partendo dall’introduzione di una “più rosa” legislazione internazionale sul matrimonio e affrontando poi la questione delle garanzie dei diritti civili alle donne, della lotta alla discriminazione di cui sono oggetto, e del loro empowerment nella società. Questioni a cui i governi sudafricani non erano affatto interessati: in maniera del tutto equa, discriminavano le donne non bianche al pari della componente nera maschile della popolazione.
All’inizio degli anni Sessanta, a seguito dello straordinario accesso all’indipendenza di buona parte dei territori sottoposti ad amministrazione coloniale, la comunità internazionale decise di scardinare “per sempre” quel nesso di stretta causalità che esisteva tra discriminazione razziale e colonialismo, prefiggendosi l‘obiettivo primario di eliminare qualsiasi forma di discriminazione razziale. La Convenzione internazionale per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale del 1965 e le più specificatamente anti-sudafricane Convenzioni sulla soppressione e la punizione del crimine di apartheid del 1972 e contro l’apartheid negli sport del 1985 sono solo un esempio di questa azione che ogni giorno si fece più partecipata da parte della società civile. Inversamente e tragicamente proporzionale fu invece la condotta della dirigenza sudafricana contro qualsiasi forma di dissenso all’apartheid: ne seguirono la strage di Sharpeville del 1960 e il massacro di Soweto del 1976. Ma non solo, erano ordinarie le repressioni nel sangue di qualsiasi tentativo di sollevazione e di sommossa popolare nei sobborghi residenziali dei neri, nelle miniere e nelle fabbriche. Sono gli anni più bui per il Sudafrica, quelli in cui Mandela fu confinato sull’isola di Robben Island, pochi chilometri a largo di Cape Town, e con lui molti altri membri dell’African National Congress o del Partito Comunista, entrambi messi all’indice per l’opposizione alla politica di apartheid. Il carcerato numero 46664 sarebbe uscito dal carcere soltanto nel 1990, quando il presidente Frederik Willem de Klerk, insignito nel 1993 del Nobel per la Pace assieme allo stesso Mandela, ne ordinò la scarcerazione e decretò la fine dell’illegalità per l’ANC. Un caso che queste circostanze si verificassero con il crollo dell’Urss e lo smantellamento dei blocchi contrapposti della guerra fredda? Nient’affatto, come altrettanto non casuale fu l’indizione della Conferenza mondiale sui diritti umani di Vienna nel giugno del 1993 (la seconda nella storia dopo quella di Teheran del 1968) che sancì una svolta nell’ideazione e nel rafforzamento degli strumenti giuridici atti a promuovere la tutela dei diritti umani: venne istituito l’Alto Commissariato ONU per i Diritti Umani, di cui quest’anno ricorre il ventesimo anno dalla nascita. In realtà la normativa giuridica e gli strumenti sanzionatori per far fronte all’apartheid in Sudafrica già esistevano da tempo, era la volontà politica di una loro attuazione quella che mancava: per troppi decenni la realpolitik vinse sul rispetto della dignità umana, privilegiando interessi geo-strategici, economici e politici.
Negli ultimi 20 anni ci si è quasi dimenticati del “lungo cammino verso la libertà” compiuto dal Sudafrica, un percorso ostacolato da molti leader di quegli stessi Paesi che erano martedì a Johannesburg a rendere onore all’eroe della “rainbow nation”, e che ha costituito un termine di riferimento e uno stimolo per l’avanzamento della tutela dei diritti umani del XXI secolo. Una storia che deve esortare a lottare per tutte quelle forme di violazione dei diritti umani ancora in atto nel mondo, e da cui, magari fra vent’anni, emergeranno nuovi eroi.