Corte Penale Internazionale: 15 anni dopo la sua istituzione

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Dopo l’attacco aereo della scorsa settimana con armi chimiche nella provincia di Idlib, in Siria, le cui immagini di alcune delle giovanissime vittime hanno fatto il giro del mondo, in più tra cittadini e politici hanno chiamato in causa la Corte Penale Internazionale (CPI), chiedendo un suo immediato intervento per far luce su questo come su altri cruenti crimini della guerra che si sta combattendo nel Paese dal 2011. Da tanto tempo l’invocazione del Tribunale non era connessa a una sua possibile azione ma piuttosto a rafforzare le severe critiche rivolte alla giustizia penale internazionale, accusata sempre più spesso di selettività nell’avvio dei procedimenti a misura di Occidente e di interferenza nella politica, oltre che di eccessiva durata degli stessi processi.

Eppure appena 15 anni fa si apriva il sogno di un sistema di giustizia globale, che rispondesse alla condivisa esigenza che “i delitti più gravi che riguardano l’insieme della comunità internazionale non possano rimanere impuniti”. Guardando al passato dei Tribunali di Norimberga e Tokyo all’indomani della seconda guerra mondiale e ai cosiddetti Tribunali creati ad hoc per la ex Jugoslavia e la Sierra Leone negli anni Novanta, ecco che veniva creata una Corte permanente, così da ovviare al problema di procedere di volta in volta, dopo fatti particolarmente “crudi”, alla nascita di un nuovo istituto giuridico. Al netto però dell’affermazione ideale inserita nel preambolo dello Statuto della Corte Penale Internazionale, condivisa universalmente, la sua entrata in funzione all’avvenuta ratifica di almeno 66 Stati nel 2002 non ha determinato quei cambiamenti che in molti avevano auspicato. Sebbene la CPI non abbia avuto competenze a completa copertura di tutti i gravi reati esistenti sul piano mondiale ma solo limitate ai casi di genocidio, ai crimini di guerra, ai delitti contro l’umanità, non va in questo limite cercata la ragione delle accuse rivolte all’istituzione, accompagnate dalle prime defezioni degli Stati parte. Da un lato la fine della guerra fredda e il crollo dell’URSS all’inizio degli anni Novanta hanno consentito la messa in moto di un processo che ne ha infine consentito l’istituzione, d’altro lato la creazione di più centri di potere e l’avvio di relazioni internazionali poco stabili, specialmente dopo l’attentato delle Torri Gemelle dell’11 settembre 2011, hanno minato alla base l’effettivo funzionamento del Tribunale. Le posizioni di assoluta contestazione rispetto alla CPI assunte da alcune grandi potenze, Stati Uniti, Russia e Cina in primis, tendono a contrapporre il nazionalismo unilaterale e l’inazione dinanzi a eventuali gravissime violazioni dei diritti umani.

Negli anni a queste opposizioni inaugurali si sono aggiunte quelle dei Paesi africani, praticamente i soli a essere stati oggetto dell’esame della Corte, che hanno messo in dubbio l’obiettività del Tribunale internazionale; una accusa non priva di fondamento quando sono 9 i procedimenti a carico di africani sui 10 aperti. Per questa ragione già Burundi, Gambia e Sudafrica hanno avviato la procedura per lasciare la CPI, e probabilmente altri Stati del continente (probabilmente Kenya e Namibia) seguiranno questo trend, aumentando la debolezza del Tribunale e determinando la fine della giustizia internazionale in Africa. L’adozione di una strategia continentale collettiva, ma non vincolante, che induca all’uscita dalla CPI è stata definita ai margini dell’ultimi Vertice dell’Unione Africana dello scorso gennaio; tuttavia l’assenza di raccomandazioni concrete in tal senso e di alcun termine temporale indicano il forte limite di tale strategia che, al momento, raccomanda unicamente agli Stati membri di rafforzare i propri meccanismi giudiziari ed espandere la competenza nazionale in materia di giustizia e diritti umani “in modo da ridurre la deferenza alla Corte Penale Internazionale”.

Ma se il ministro gambiano dell’Informazione Sherif Bojang può accusare a gran voce la CPI di aver ignorato i crimini di guerra occidentali, rigettando le indagini sui Paesi della Nato per le operazioni militari contro la Serbia nel 1999 e in Iraq nel 2003, che “la Corte penale internazionale persegua e umili solo la gente di colore, soprattutto gli africani” risulta un’accusa deplorevole, che andrebbe soppesata anche alla gravità delle azioni commesse dai vari leader africani. Ad esempio il mandato di cattura emesso dalla CPI per il presidente del Sudan Omar al-Bashir dal 2009 solleva le sue responsabilità nell’aver orchestrato le atrocità in Darfur e ancora l’incriminazione del presidente del Kenya, Uhuru Kenyatta, lancia l’accusa di crimini contro l’umanità per le violenze post-elettorali del 2007 in cui morirono oltre 1000 cittadini. Peraltro proprio recentemente tali accuse sono state definite del tutto infondate da parte della procuratrice della CPI (peraltro ex ministra della Giustizia del Gambia) Fatou Bensouda, che ha indicato che la Corte ha avviato indagini preliminari in Georgia, in Ucraina, in Siria, contro militari statunitensi e britannici in Afghanistan e in Iraq, e contro soldati israeliani in Palestina.

Nonostante tale rassicurazione, un certo sbilanciamento nell’attività della CPI è evidente, così come un raffreddamento dell’entusiasmo mondiale che aveva inizialmente condotto a osannare la creazione del Tribunale. In questi ultimi anni di progressiva chiusura delle politiche multilaterali a tutto favore di sistemi protezionistici e nazionali, c’è da pensare che purtroppo difficilmente ci sarà a breve un rilancio della Corte.

Miriam Rossi

Miriam Rossi (Viterbo, 1981). Dottoressa di ricerca in Storia delle Relazioni e delle Organizzazioni Internazionali, è esperta di diritti umani, ONU e politica internazionale. Dopo 10 anni nel mondo della ricerca e altrettanti nel settore della cooperazione internazionale (e aver imparato a fare formazione, progettazione e comunicazione), attualmente opera all'interno dell'Università degli studi di Trento per il più ampio trasferimento della conoscenza e del sapere scientifico.

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