Un No al Ponte con ventiquattromila baci

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Foto: Facebook.com

Da decenni per il movimento No Ponte agosto è una tappa obbligata per un corteo, per ribadire che la cittadinanza deve difendere il diritto alla vita e farlo significa rifiutare il progetto di un’opera definita inutile e criminale dal movimento stesso. Ancora di più quest’anno dopo la conferenza stampa del ministro Matteo Salvini del 6 agosto in cui ha annunciato l’approvazione del progetto definitivo del Ponte da parte del Cipess (il Comitato interministeriale per la programmazione economica e lo sviluppo sostenibile).  

Ne abbiamo parlato con Giuliana Sanò, attivista dell’assemblea No Ponte che insegna antropologia sociale all’Università di Messina.

A che punto è la narrativa e il progetto sul Ponte sullo Stretto?

Dipende da quale punto di vista vogliamo osservare le narrazioni e le rappresentazioni cucite addosso a questa grande opera. I sostenitori del ponte provano a tenere in vita una narrazione che si sviluppa intorno al grande tema del «progresso». Non è chiaro, tuttavia, a quale idea di progresso essi facciano riferimento, dal momento che quello che a noi viene venduto come un volano per lo sviluppo e il progresso del territorio non presenta nessuna delle caratteristiche (valore sociale, riduzione degli impatti ambientali, sostenibilità) che anche dall’Unione europea vengono associate all’idea di progresso. Insomma, anche volendo rimanere su un terreno distante dal nostro – cioè su un terreno che non contempla i bisogni della classe lavoratrice, delle soggettività oppresse e marginalizzate – e ragionando nei termini e con gli strumenti di chi dal cuore dell’Europa stabilisce le regole del gioco, il Ponte non si avvicina nemmeno lontanamente a ciò che viene venduto come «progresso». Comunque la si guardi (o la si pensi), la vicenda del Ponte sullo Stretto somiglia sempre di più a una scatola vuota: di idee, di contenuti, di concretezza e di reali speranze. 

Anche le narrazioni sull’aumento dell’occupazione territoriale che generalmente vengono fatte circolare, sono state smascherate proprio da chi questo ponte vuole a tutti i costi intestarselo: a realizzare la grande opera – ha dichiarato in conferenza stampa il ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture Matteo Salvini – saranno aziende lombarde, venete, romagnole e laziali. Le aziende di Sicilia e Calabria non sono formate e non rientrano nei piani di «sviluppo e progresso» associati alla grande opera. Il ricatto occupazionale, la moneta di scambio che ha permesso ai padroni del Nord di trasformare il Sud Italia in una gigantesca discarica, non regge più: perché i vantaggi di questa grande opera dovranno tornare tutti al Nord.

Ad ogni modo, le narrazioni – o le chiacchiere – in questo momento stanno a zero. In tante e tanti pensiamo che alzare la posta in gioco, dichiarare a ogni piè sospinto che i cantieri stanno aprendo e che un ulteriore passaggio burocratico è stato superato, serva solo a tenere in vita un sistema di potere che, al netto delle strutturali criticità dell’opera, può rimanere in piedi solo se spinto da roboanti annunci. 

Quest’idea di sviluppo, la sua linearità e la sua mera espressione di profitti di pochi è stata già smascherata da decenni dai meridionalisti marxisti eterodossi, dalle teorie della dipendenza e ancora da numerosi movimenti di opinione o di organizzazioni e reti promotrici di pratiche ed economie anticapitaliste. Cosa significa oggi guardare alla promessa di inizio cantiere del Ponte e  contestarne  l’immaginario da Torre Faro, da Messina, dalla Sicilia?

Il popolo No Ponte porta avanti da decenni ragionamenti e discorsi che in questi ultimi anni si sono intensificati. I discorsi di chi vive in queste zone parlano di acqua, casa, lavoro, territori, servizi, salute, beni comuni e sociali. Ma non solo: tra i discorsi che il movimento No Ponte porta avanti compaiono anche le saldature che si attivano tra l’operazione di costruzione del Ponte, la militarizzazione del territorio e il dispositivo coloniale...

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