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Il favore che dobbiamo a Mandela
Nonviolenza
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Facciamo un favore a Mandela: glielo dobbiamo, e al più presto. Prima che l’inevitabile canonizzazione bipartisan della sua immagine di anziano sorridente, accolto calorosamente nei migliori salotti e blandito da star di ogni risma, ci faccia perdere traccia del suo “lungo cammino verso la libertà”. Facciamogli il favore di ricordare perché e in quali circostanze Nelson Rolihahla Mandela ha guadagnato gli onori della storia.
Per decenni Mandela è stato soprattutto un criminale: tale lo ritenevano le sentenze del regime sudafricano fondato sulla discriminazione razziale contro cui egli lottava, e che in risposta lo sbatté in cella per ventisette anni. E tale lo consideravano di fatto i governi del “mondo libero”, per i quali il Sudafrica dominato dai bianchi doveva essere considerato un “baluardo” contro il pericolo comunista. Era la logica della Guerra fredda, che in onore alla difesa della libertà dell’Occidente ha consentito di giustificare la limitazione delle libertà altrui; e di assolvere, quando non di supportare, quei regimi politici che ne abbracciavano la causa colpendo fisicamente e moralmente chi si opponeva. “Fortunato” Mandela a vedere la fine di una simile aberrazione: la stessa sorte non è toccata a milioni di vittime nel mondo. Su questa logica impietosa, e con risultati altrettanto disastrosi, per decenni si è combattuta una guerra in nome e per conto dell’ “Occidente libero” fin nei più remoti angoli del pianeta, che ne fossimo coscienti o meno.
Peggio ancora di un criminale: Mandela era un terrorista. Così per le autorità di Pretoria, dal momento che lui e il suo movimento, l’African National Congress, avevano accettato la difficile scelta della lotta armata. Il movimento ruppe gli indugi nel 1960, quando a Sharpeville le stesse autorità ordinarono il massacro per mano della polizia di 69 manifestanti disarmati; insieme ad altre migliaia, protestavano contro l’obbligo di un permesso speciale per i neri che volevano accedere ad aree riservate ai bianchi. Più volte le stesse autorità offrirono a Mandela il più crudele dei baratti: la libertà personale in cambio della rinuncia alla violenza. E altrettante volte dal carcere giunse lo stesso ostinato rifiuto: era il governo illegale e dispotico a dover rinunciare per primo ai propri metodi repressivi e sanguinosi e a mettere fine all’apartheid. Ma la scelta delle armi ne faceva un terrorista anche fuori dai confini nazionali, poiché essa minacciava la stabilità del regime e un regolare accesso alle enormi risorse del Sudafrica, estratte da manodopera nera ridotta pressoché in schiavitù.
I membri dell’African National Congress si comportavano da “terroristi” per il Premier britannico Margaret Thatcher, dal momento che avevano annunciato di voler colpire gli enormi interessi britannici nel paese e le loro connivenze col regime di apartheid. Ma un simile status è durato anche più a lungo per il governo degli Stati Uniti d’America, che nell’imbarazzo generale si accorse soltanto alla metà degli anni 2000 di aver dimenticato il nome di Mandela nella lista dei “terroristi” da tenere sotto controllo e possibilmente fuori dai confini. Negli anni ’80, di fronte alla crescente pressione dell’opinione pubblica interna e all’aggravarsi della repressione in Sud Africa, il Congresso degli Stati Uniti aveva chiesto l’introduzione di sanzioni economiche contro il regime razzista, fintantoché non fosse terminato il regime di apartheid e di soppressione dell’opposizione politica. Un voto che fu necessario ripetere per scavalcare la furiosa opposizione dell’allora Presidente Ronald Reagan, e contro il quale si scagliò Dick Cheney, all’epoca deputato e successivamente vice del Presidente George W. Bush. Negli stessi anni il regime bianco di Pretoria poteva giovarsi della consulenza di quel Samuel Huntington che più tardi avrebbe costruito le proprie fortune pubbliche sullo slogan dello “scontro di civiltà”, e che invece consigliava all’elite bianca una lenta evoluzione del sistema di apartheid, accompagnata dal rafforzamento del potere repressivo dello stato, piuttosto che un suo completo smantellamento.
Fortunatamente sappiamo come la storia si è conclusa. Abbiamo visto una distesa di mani nere e bianche celebrare la liberazione di Mandela dal carcere, ascoltato il grido collettivo di gioia che ha accolto il suo giuramento da Presidente di un paese nuovo. Dopo una vita votata alla fine della sopraffazione razziale, il mondo ha apprezzato la coerenza di Mandela nell’adoperarsi perché la nuova giustizia non si trasformasse in vendetta o in nuova sopraffazione a parti invertite. Il Presidente ha stretto le mani di quei leader mondiali che lo avevano sostenuto in tempi non sospetti, ma anche di chi sul suo conto aveva espresso giudizi di tutt’altro segno. Abbiamo infine accolto le sue confessioni che il Sud Africa senza apartheid è soltanto un punto di partenza, e che nessun approdo è possibile fintantoché sussistono vergognose disuguaglianze sociali, vecchie e nuove violazioni dei diritti umani, educazione insufficiente, scarsa protezione della salute privata e pubblica.
Lo abbiamo insomma visto comportarsi secondo i canoni di ciò che è lecito chiedere a un vero leader politico democratico, al servizio del suo popolo e interprete delle sue esigenze, non del proprio ego. Ma accettare il compromesso, la mediazione, il dialogo e la riconciliazione non equivalgono all’oblio del passato e all’annullamento delle differenze tra le vittime e i carnefici di un tempo. E’ questo l’ultimo favore che dobbiamo a Mandela, e più ancora a noi stessi che troppo spesso dimentichiamo quanti sacrifici può esigere la libertà di cui godiamo, e quanto immensamente preziosa e perennemente minacciata essa sia.
Giovanni Bernardini da Trentino