Armi esplosive: negoziato in salita

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Immagine: Unsplash.com

Dopo due anni di pausa forzata dovuta alla pandemia mondiale, lo scorso mese sono ripartite le consultazioni sul testo della Dichiarazione politica internazionale sulle armi esplosive. Dal 6 all’8 aprile il Palazzo delle Nazioni a Ginevra ha ospitato 65 delegazioni diplomatiche provenienti da altrettanti Paesi, rappresentanti di organizzazioni internazionali umanitarie come il Comitato della Croce Rossa Internazionale e quelli della società civile, tra cui INEW, la Rete internazionale di ONG contro le armi esplosive. Per la società civile italiana era presente l’Associazione Nazionale Vittime Civili di Guerra, a sua volta in rete con Campagna Italiana Contro le Mine e Rete Italiana Pace e Disarmo.

Per tre giorni gli oltre 200 delegati si sono consultati formalmente per accettare e respingere i contenuti della Dichiarazione proposti dall’Irlanda, lo Stato che si è offerto di guidare il processo di negoziazione. Un processo che non si è rivelato affatto facile e il cui risultato parziale per il momento lascia molti interrogativi sul reale interesse della Comunità internazionale per il problema del coinvolgimento dei civili nei conflitti e sulla possibilità effettiva di garantire sistemi di protezione realmente efficaci. L’obiettivo centrale della Rete INEW è quello di promuovere a livello internazionale comportamenti e pratiche militari da parte degli Stati in conflitto per minimizzare il più possibile i rischi per i civili derivanti dall’impiego delle armi esplosive impiegate nei centri urbani. Quello delle armi esplosive, infatti, è diventato un vero e proprio problema umanitario senza precedenti nel corso degli ultimi dieci anni. Non è un caso che la Croce Rossa Internazionale e ben due Segretari generali delle Nazioni Unite (Ban Ki-Moon e Guterres) abbiano espresso più volte preoccupazione a riguardo.

E’ un dato di fatto che quando le armi esplosive sono usate nei centri urbani o comunque in aree densamente popolate un numero ingente di civili rimane ingiustificatamente ucciso e ferito o soffre per le conseguenze derivanti la distruzione di infrastrutture e servizi vitali per la sopravvivenza umana. Questo “schema di danno”, ampiamente documentato, è riscontrabile in tutti i più sanguinosi conflitti contemporanei: Etiopia, Iraq, Gaza, Yemen, Siria e Ucraina. I dati, incontrovertibili, dimostrano che le vittime dei conflitti urbani sono civili per il 90%. Che si tratti di attacchi aerei, artiglieria, razzi o ordigni artigianali, il problema è che le armi esplosive sono progettate per essere utilizzate in campi di battaglia aperti, non tra le strade strette e i palazzi di una città. La conformazione topografica tipica dei centri abitati amplifica esponenzialmente la loro portata distruttiva e causa ai civili e alle comunità sofferenze che si protraggono molti anni dopo la fine del conflitto.

È dal 2019 che il tema del danno umanitario delle armi esplosive è diventato oggetto di un preciso percorso diplomatico. Prima di allora, infatti, la percezione diffusa era che le armi esplosive non costituissero un problema umanitario, perché il loro uso è lecito ai sensi del diritto di guerra, conosciuto anche come Diritto internazionale umanitario (DIU). È con la conferenza di Vienna del 2019 che i costi umani e le sofferenze causate dalle armi esplosive in guerra cominciano ad essere percepite dalla comunità internazionale come un problema umanitario di cui farsi carico ed è su questo riconoscimento che si è basato il percorso diplomatico della Dichiarazione politica internazionale...

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