Genocidio in Ruanda: per non dimenticare

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Foto: Pixabay.com

In Ruanda, tra il 6 aprile e il 16 luglio del 1994 si consumò il genocidio dei tutsi e l’uccisione sistematica degli hutu moderati per mano dell’esercito regolare e delle milizie paramilitari hutu degli interahmwe ruandesi. In appena 100 giorni fu eseguito lo sterminio di quasi un milione di persone, compiuto soprattutto con machete, asce e bastoni chiodati. Tra i sopravvissuti si contano più di 300 mila orfani. Sono innumerevoli, in questo inferno, le storie di persone che hanno fatto la scelta, a volte pagando con la propria vita, di opporsi a questa follia nascondendo i perseguitati nelle proprie case o aiutandoli a fuggire.

Nella giornata del 7 aprile le Nazioni Unite hanno istituito la Giornata Mondiale della Memoria in onore delle vittime del genocidio in Ruanda, per ricordare quella terribile pagina di storia.

La violenza esplose da un giorno all’altro, anche se progettata sistematicamente da tempo, e pervase ogni strada e ogni casa. Il 6 aprile del 1994 l’aereo che trasportava il presidente del Ruanda, Juvénal Habyarimana, e il presidente del Burundi, Cyprien Ntaryamira, entrambi di etnia hutu, fu colpito da due razzi quando era in fase di atterraggio a Kigali. Poche ore dopo la situazione precipitò: quell’attentato diede inizio al genocidio in Ruanda e ai massacri sanguinosi, che coinvolsero anche il Burundi, nei confronti della minoranza dei tutsi, ritenuta dai più responsabile dell’attentato.

Nel 1994 il mondo stava guardando alla disfatta americana in Somalia e l’Italia piangeva la morte della sua giornalista Ilaria Alpi, inviata per il TG3 a Mogadiscio, insieme al suo cineoperatore Miran Hrovatin. Televisioni e giornali attendevano il primo voto del dopo-apartheid in Sudafrica. L’Europa assistiva impotente alla tragedia nei Balcani. Mentre accadeva tutto ciò, nel cuore dell’Africa iniziava uno dei più atroci genocidi del Novecento. 

Tra le storie di chi tentò di salvare delle vite merita di essere ricordata anche quella del Console Pier Antonio Costa, a cui è stato dedicato il libro “La Lista del Console” del giornalista di Famiglia Cristiana Luciano Scalettari e l’omonimo documentario di Alessandro Rocca. Una storia che è stata ricordata recentemente in uno speciale sul genocidio in Ruanda, della Rivista Africa, visualizzabile su YouTube. Pier Antonio Costa, Console Onorario d’Italia in Ruanda, riuscì a salvare più di duemila bambini tutsi trasportandoli in Burundi con ogni mezzo: macchine, bus, piccoli pulmini. Spesso pagando. Quella primavera organizzando i viaggi per portare in salvo i bambini in pericolo, Costa perse molti dei suoi soldi e delle sue proprietà. Il console, scomparso all’inizio di quest’anno, per dieci anni mantenne segreto il suo impegno, ritenendo di aver fatto niente più che il suo dovere. “Quello che ho fatto, non l’ho fatto cercando il martirio o l’eroismo. Ho fatto prima di tutto il mio dovere come console e verso me stesso, verso la mia coscienza. - Ha raccontato nel film documentario. - Quelli che ho preso con me sono tutti usciti. Per la prima volta in vita mia ho visto una massa di bambini con la paura negli occhi, questa è stata una delle regioni per le quali abbiamo cercato di salvare il massimo dei bambini”.

Tra i bambini sopravvissuti al genocidio c’è Jean Paul Habimana, ruandese di etnia tutsi. Dal 2005 vive in Italia, con la moglie e i loro due figli ed è insegnante di religione. Racconta i giorni terribili del genocidio nel suo libro, appena pubblicato, “Nonostante la paura”Nella primavera del 1994 aveva 10 anni. Abitavo in un villaggio del Ruanda, da piccolo giocavo con tutti i bambini e sono cresciuto senza sapere se fossi tutsi o hutu. Ho iniziano a capire che era una questione importante quando, alla scuola primaria, la maestra mi chiese di che etnia fossi – racconta nello speciale della Rivista Africa. - Dopo l’uccisione del presidente abbiamo iniziato ad avere paura ma nessuno si sarebbe mai aspettato quello che è successo il giorno dopo, quando sono arrivarti nel nostro villaggio. C’era il terrore dappertutto. All’ora di pranzo, ero a tavola con la famiglia ma altre persone sono venute ad avvisarci di scappare. Ci siamo messi tutti a correre, ad ogni passo si sentiva gente che urlava. Ad un certo punto ho perso anche mia mamma e mio papà, mi sono trovato in una folla di gente e una ragazza diceva che per salvarci dovevamo raggiungere la parrocchia. Per arrivarci, abitualmente ci si impiegava 1 ora ma quel giorno siamo partiti all’una e siamo arrivati alle sei, perché dovevamo far di tutto per non farci vedere, passando nei boschi. In parrocchia per fortuna ho trovato anche il mio fratellino. Per la prima volta abbiamo passato la notte senza genitori, avevamo paura”. Successivamente il piccolo Jean Paul ha trovato rifugio in un convento, presso una famiglia hutu e poi in un campo profughi, rischiando molte volte la vita. Non ha mai più rivisto suo padre.

A 27 anni dal genocidio, dopo un difficile processo di riconciliazione, il Ruanda ha fatto molti progressi dal punto di vista economico, seppur vengono mosse critiche al presidente Kagame ed al suo partito, fermamente al potere da quegli anni. Si continua a discutere della responsabilità della comunità internazionale, che assistette inerme ai massacri ignorando sistematicamente le denunce e le richieste di aiuto mentre il genocidio si stava consumando. Il Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda istituito dall’ONU alla fine del ’94 ha processato decine di responsabili. Il Ruanda oggi è costellato di luoghi della memoria e ogni anno il paese si ferma per una settimana di commemorazioni in ricordo delle vittime.

Ci si chiede oggi se potrà accadere di nuovo. Forse sì, ogni volta, ad esempio, che iniziamo a dipingere qualcuno come un nemico perché ha un colore della pelle diversa. In ogni luogo ed ogni volta che razzismo e xenofobia designano un nemico da abbattere.

Lia Curcio

Sono da sempre interessata alle questioni globali, amo viaggiare e conoscere culture diverse, mi appassionano le persone e le loro storie di vita in Italia e nel mondo. Parallelamente, mi occupo di progettazione in ambito educativo, interculturale e di sviluppo umano. Credo che i media abbiano una grande responsabilità culturale nel fare informazione e per questo ho scelto Unimondo: mi piacerebbe instillare curiosità, intuizioni e domande oltre il racconto, spesso stereotipato, del mondo di oggi.

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