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Siria: una rivoluzione contro una rivoluzione
Conflitti
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ANTAKYA (Turchia): “La rivoluzione non è altro che un qualcosa che ti guida, le nostre deboli coscienze sono le ragioni che ci hanno spinto lontano dalla strada, che ci hanno spinto a intraprendere strade difficili. Adesso siamo come persone che girano al tondo”. Il dito indice della mano destra di Ammar mima le parole che ha appena pronunciato mentre passeggi in un oliveto davanti al campo profughi dove vive come rifugiato sulla strada per Hacipasa, un piccolo villaggio nel Sud della Turchia al confine con la Siria.
Ammar, fino a un mese fa era un “citizen journalist” e attivista pro-rivoluzione. Fin dai primi giorni di proteste è sceso in piazza nella sua Jisr Ash Shughur. Per oltre un anno e mezzo ha riportato notizie sui media arabi dal Nord della Siria. Oggi la sua videocamera è spenta e impacchettata nella tenda in cui vive. A farlo scappare da quella che chiamava “rivoluzione” sono state le minacce che sempre più frequentemente ha iniziato a ricevere. Prima quelle dallo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS), un gruppo legato ad al-Qaeda, che lo accusava di essere una spia dell’occidente perché girava con la videocamera e poi, negli ultimi tempi, quelle dei ribelli dell’Esercito Siriano Libero, di cui Ammar non ha mai avuto paura a denunciare la corruzione che lo affligge. Poche settimane fa, mentre si trovava vicino ad Idlib, l’auto su cui viaggiava è stata colpita da quattro proiettili. Un avvertimento abbastanza chiaro che lo ha convinto a compiere il passo che mai avrebbe creduto possibile: “ho deciso di lasciare la Siria”, dice senza mezzi giri di parole. E attraversando il confine per entrare in Turchia ha perso l’ultimo brandello di speranza che ancora aveva. “Non credo – racconta sconsolato – che la rivoluzione ci è stata rubata. Credo che l’abbiamo venduta. Adesso c’è una nuova rivoluzione in corso. È una rivoluzione contro una rivoluzione. Tutto è cambiato da quando siamo scesi in strada contro Bashar al-Assad nel 2011. Le circostanze sono cambiate, le persone. La maggior parte di quelli che si sono rivoltati al regime fin dall’inizio sono martiri o hanno capito che il motivo per cui si combatte adesso non è più lo stesso e sono fuggiti”.
L’idea di “rivoluzione” di Ammar è distante anni luce da chi in Siria impugna le armi e quindi ha il potere di controllare o imporre le proprie regole: “adesso – è l’opinione di Ammar – siamo in guerra o in una jihad, o in qualsiasi modo vogliamo chiamarla. La rivoluzione si è fermata. Perché una rivoluzione non è soltanto un proiettile sparato contro il regime ma è una parola scritta da un giornalista, una videocamera che è l’arma di un altro giornalista, la rivoluzione dei dottori, degli avvocati, delle persone educate, coloro che ad alta voce dicono “Dio, non abbiamo altro che te, Dio”. Per lui, questa era la rivoluzione, la situazione in cui “le persone esprimevano le proprie idee”. Per questo, conclude prima di accendersi l’ennesima sigaretta, “credo che la rivoluzione sia finita quando è iniziato il conflitto armato”.
Fino a poche settimane fa, Hayaan combatteva sulla linea del fronte con i ribelli. Lo avevo incontrato durante una delle battaglie più violente nell’area di Jisr Ash Shughur nel Dicembre 2012. Guidava un gruppo di una ventina di giovani ragazzi. Quel giorno, dopo oltre cinque giorni di assedio e 48 ore di battaglia, il suo gruppo e altre brigate dei ribelli riuscirono a conquistare una base militare. Hayaan ci aveva permesso di seguire la battaglia e ospitato in una base sicura per oltre una settimana. Era un giovane e carismatico leader ben conosciuto nell’area di Darkush.
Oggi siede in un elegante appartamento nel centro di Antakya, in Turchia, con la sua famiglia. Sta cercando un lavoro lontano dalla Siria e non è d’accordo su quello che sta succedendo all’interno tra l’Esercito Siriano Libero e la nuova ondata di estremismo, la maggior parte combattenti stranieri che combattono per l’ISIS.
“I combattenti dell’ISIS – dice – arrivano in Siria promettendo che sono qui per aiutare altri musulmani. Siamo qui a combattere con te. Vengono e stanno nelle aree controllate dall’ESL. Poi iniziano a mettere i loro check-point, ad imporre con la forza la loro legge e guarda adesso, autobombe ovunque contro di noi. Siamo tutti infedeli secondo loro. Non distinguono tra ESL e Assad”. La domanda che Hayyan si fa in continuazione e che non trova risposta è: “Chi stiamo combattendo? Il regime o l’ISIS? Chi ha tradito la nostra rivoluzione? “Combattevo vicino Jisr Ash Shughur qualche mese fa – racconta l’ex ribelle – sono arrivati e ci hanno sparato addosso. La città, controllata dal regime era li, davanti a loro. Perché non sono entrati a combattere? Dove era tutta questa gente quando io e migliaia di persone siamo scesi in strada contro il regime? Il loro obiettivo è distruggere l’ESL in modo da permettere ad Assad di rimanere?”.
La corruzione all’interno dell’Esercito Libero Siriano è stata una delle cause che ha favorito la crescita di gruppi radicali, in “guerra santa” per ogni ragione. È soltanto nell’ultima estate, dopo che la maggior parte delle aree nel Nord della Siria erano cadute sotto il controllo dell’opposizione che lo strapotere dell’ISIS ha iniziato a espandersi. In alcune aree hanno iniziato a imporre la loro legge islamica considerando i ribelli “infedeli”. Chi non rispettava la “loro legge” veniva punito. Pubbliche esecuzioni di piazza erano all’ordine del giorno. “L’ultima volta che sono stato in Siria – dice Hayyan – era circa due settimane fa. Sono andato a portare cibo ai miei ex compagni a Darkush dove stanno resistendo all’ISIS che ogni giorno invia auto bombe (Darkush è caduta sotto il controllo dell’ISIS sabato 25 Gennaio, costringendo la maggior parte dei ribelli alla fuga in Turchia)”. Il sentimento che prova verso quello che sta succedendo è abbastanza chiaro: “Mi sento tradito. Tradito, tradito, tradito – ripete in continuazione, marcando le parole con il movimento delle braccia – Ogni ragione che ti costringe a ritirarti dalla linea del fronte dove hai combattuto, sacrificato il tuo tempo e perso compagni significa tradimento”.
Per molti la possibilità di vedere cadere il regime sembra essersi spenta. Maher è un giovane di 25 anni. Lo incontro in un appartamento che la sua brigata utilizza ad Antakya come “casa sicura”. Fino a qualche mese fa li ci dormivano quelli che dopo un mese al fronte avevano i loro quattro giorni di riposo lontano dai combattimenti. Oggi è diventata la casa di oltre venti persone che hanno abbandonato la Siria per la guerra interna che è scoppiata. Maher ha deciso di riporre il suo fucile da cecchino che utilizzava per combattere il regime nella provincia di Idlib perché i valori per i quali aveva deciso di impugnarlo sono cambiati. Mentre parla piega accuratamente alcuni vestiti e li ripone in una grande valigia. La mattina seguente partirà per Istanbul e poi un aereo lo porterà in Libia, dove vivono e lavorano due dei suoi fratelli. “È una sensazione strana quella che provo in questo momento – spiega – ma è una decisione che ho preso e che non cambierò. Oramai il senso di tradimento per quello che succede è più forte della volontà di rimanere. Mi sento triste e sono triste per il mio Paese, soprattutto considerando che sono sceso in strada a chiedere libertà fin dall’inizio delle proteste contro il regime”.
Oggi nelle città del Sud della Turchia il sentimento che provano ragazzi come Hayyan, Maher e Ammar accomuna molte persone che fino a poco fa credevano di poter far cadere Bashar al-Assad. Ma purtroppo per loro la Siria è diventata una guerra tra gang e mentre le forze del regime non sono in grado di riguadagnare terreno, l’Esercito Siriano Libero ha generato una serie di signori della guerra più impegnati a contrabbandare olio e armi che a combattere. Dall’altro lato lo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria, con la loro ideologia ha generato uno stato di terrore. Dopo oltre tre anni di battaglia, con centinaia di migliaia di morti e milioni di rifugiati il Paese rimane nel “caos”.