www.unimondo.org/Guide/Guerra-e-Pace/Conflitti/Pace-e-guerra-all-Onu-sembrano-convivere-148095
Pace e guerra, all’Onu sembrano convivere
Conflitti
Stampa
Palazzo di Vetro a New York, 24 settembre 2014. Come in molti altri consessi, anche nella prestigiosa sede dell’Organizzazione delle Nazioni Unite le parole inaugurali della 69° sessione dell’Assemblea Generale richiamano il centenario dello scoppio della prima guerra mondiale. “Eppure il mondo non è ancora tranquillo come potrebbe o dovrebbe essere” ha rilevato nelle ultime battute del suo discorso il Segretario Generale dell’ONU Ban Ki-moon, spiegando che “ci sono molte più crisi provocate dall’uomo che catastrofi naturali per la guerra, la povertà e l’ignoranza. Crisi causate da persone che potrebbero essere fermate da altre persone”. “Quest’anno terribile per i principi sanciti dalla Carta dell’ONU” passa difatti per conflitti sanguinosi che hanno attraverso Repubblica Centrafricana, Gaza, Ucraina, Sud Sudan, Mali e Sahel, Somalia, Nigeria, Iraq e Siria.
“Turbolenze”, come le definisce Ban Ki-moon immaginando la spia accesa dell’”allacciate le cinture” sul volo di linea del mondo, che “testano il sistema multilaterale, le istituzioni nazionali e la vita delle persone”. Difficile avvertire le pacate parole del Segretario Generale dell’ONU, il pilota dell’Organizzazione, quando il volo è pesantemente influenzato dalla ricchezza e dal peso dei bagagli in stiva, dalla conflittualità dei passeggeri nonché dalla loro posizione in business o in economy class, sempre restando alla metafora.
Dinanzi a interessi su risorse naturali e strategiche, a guerre civili e interstatali a bassa intensità, al gap fra Paesi straricchi e strapoveri, la comunità internazionale non ha ancora dimostrato di saper creare quella partnership globale auspicata nell’ottavo degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, a meno di 470 giorni dalla data prefissata per il loro raggiungimento. “Insieme, possiamo rendere il mondo nuovamente un luogo sicuro” ha enfatizzato il Presidente del Consiglio Europeo Van Rompuy prendendo la parola dinanzi a un’Assemblea Generale, in cui non pochi rappresentanti degli Stati membri, di volta in volta, parlando dall’alto dello scanno del forum internazionale, hanno reclamato pace e sicurezza internazionale, secondo la terminologia della Carta ONU, ma agitando spettri di violenza e di aggressività.
È il Premio Nobel per la Pace 2009, il presidente statunitense Obama, a esordire nel giorno di apertura dei lavori dell’Assemblea con un invito al mondo a unirsi nello sforzo (bellico) contro l’Isis, il nuovo fronte del male, “che va distrutto”. Pur respingendo l’immagine di uno “scontro di civiltà” paventata dal suo predecessore alla Casa Bianca, la terminologia usata nel pieno rispetto delle comunità islamiche che rifuggono il linguaggio di morte e di estrema violenza usato da questi combattenti non fa cenno alla mancata autorizzazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU a questa nuova operazione militare, avviata dagli Stati Uniti con il consueto supporto di un gruppo di “volenterosi”. Ancora guerra dunque.
Da una parte la comunità social di #Notinmyname, sollecitata a far sentire ancora di più la sua voce in forme pacifiche di lotta contro il fanatismo e il terrorismo religioso, dall’altra l’azione bellica di risposta lanciata dalle potenze occidentali: pace e guerra si affiancano nel discorso di Obama, senza che emerga la contraddizione di tale azione politica. Anche il presidente dell’Iraq Haider al-Abadi non ha perso occasione di alzare la tensione correlata alla reazione scatenata dalla violenza sul suo territorio nazionale, dichiarando a margine dell’Assemblea di essere venuto a conoscenza dell’esistenza di un piano dei terroristi dell’Isis per compiere attentati di ritorsione nelle metropolitane di New York e Parigi. Un terrorismo che secondo Hassan Rouhani, il presidente dell’Iran, è dovuto alla strategia sbagliata dell’Occidente in Medioriente, perché basata sulla forza e su forme di ingerenza che non fanno altro che alimentare questi gruppi estremisti.
Allo Stato Islamico in Iraq e a Hamas si è riferito nel suo intervento il Primo Ministro di Israele, Benjamin Netanyahu, “rami dello stesso albero velenoso” e ha lanciato una nuova denuncia alla pericolosità dell’Iran e, più in generale, un monito al fanatismo dell’Islam militante. Nondimeno il conio dell’espressione “il Consiglio per i Diritti del Terroristi”, con cui il capo di governo di Tel Aviv ha ribattezzato il Consiglio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, fa schizzare in alto l’asticella della sfiducia nei confronti del sistema dell’ONU, accusato da Israele di una difesa a oltranza di un fantomatico diritto dei palestinesi di utilizzare i propri concittadini come scudi umani. Polemiche datate quanto il conflitto arabo-israeliano, al pari del contenzioso India-Pakistan che si rinverdisce delle accuse del suo Primo Ministro Narendra Modi al suo vicino che “considera il terrorismo uno strumento della politica”. L’India si inserisce dunque all’interno della guerra al terrorismo di matrice islamica, un passo evidenziato dalla simbolica visita effettuata da Modi al Memoriale Nazionale dell’11 settembre a New York. Ovviamente retorica bellicista.
Di truppe e lotta alla violenza, nell’ottica di abbracciare la pace e la sicurezza internazionali, hanno parlato anche Giappone, Messico, Mongolia, Indonesia e Bangladesh, dando disponibilità all’invio di proprie forze armate all’interno delle missioni di peacekeeping multilaterali.
Un altro sguardo critico verso l’ONU, e dunque verso quei poteri e quegli Stati che governano la comunità internazionale, è poi venuto dall’Africa. Osman Mohammed Saleh, il ministro degli Esteri dell’Eritrea, ha chiesto di riformare profondamente l’Organizzazione ritenendo che essa abbia ha fallito nei suoi obiettivi primari di assicurare la pace mondiale e porre fine alla povertà a causa della determinazione cinica delle potenze dominanti per mantenere il suo controllo. Senti chi parla, visto che l’Eritrea è un Paese poverissimo e chiuso, una dittatura feroce stile Corea del Nord.
Un invito a “tirare fuori i muscoli” per democratizzare le stesse Nazioni Unite, eliminando il diritto di veto in Consiglio di Sicurezza, è venuto da Winston Lackin, ministro degli Esteri del Suriname, alle cui parole si sono sommate quelle di Luis Almagro dell’Uruguay che ha indicato le basi della nuova agenda di sviluppo nell’eliminazione della povertà estrema sulla base del riconoscimento e della tutela dei diritti umani. Se poi secondo il presidente dell’Assemblea Generale, il presidente dell’Uganda Sam Kutesa, la cosiddetta “Agenda post-2015“ dovrebbe essere un piano “ambizioso, di trasformazione e di produrre benefici concreti e migliori condizioni di vita”, nondimeno esso occorre che rifletta le realtà locali e i suoi bisogni. Un’invocazione espressa da diversi Paesi del sud del mondo e che si somma a quella di Sierra Leone e Liberia di agire per arrestare l’epidemia di ebola che sta mietendo vittime soprattutto nei loro Paesi intesa come una “grave minaccia alla sopravvivenza collettiva”.
Pace e guerra, con più guerra che pace (poche sono state le voci alternative alla logica dominante) criticità del sistema internazionale e dei suoi attori si sommano e si sovrappongono in un forum di confronto unico al mondo, sulla cui rilevanza nello svolgimento della politica interna ed estera degli Stati membri dell’Organizzazione c’è senz’altro da avviare un ulteriore dibattito mirato.