Israele, riforma della giustizia congelata

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Foto: Taylor Brandon da Unsplash.com

Alla fine, dopo tre mesi di proteste sempre più imponenti e diffuse, ha dovuto quantomeno rimandare. Il primo ministro israeliano, Benyamin Netanyahu, al termine di una giornata di trattative con i suoi alleati, la sera del 27 marzo è andato in tv dopo vari rinvii ad annunciare la sospensione dei lavori parlamentari per la tanto contestata riforma della giustizia. Quella voluta dal governo che guida, il più a destra nei quasi 75 di vita dello Stato ebraico.

La loro riforma metterebbe il potere giudiziario sotto il controllo di quello politico. Consentendo ad esempio alla Knesset (il Parlamento israeliano) di scegliere i componenti della Corte Suprema e, cosa ancor più contestata, di poter annullare le loro decisioni. Tra i principi cardine di uno Stato di diritto e di una democrazia liberale c’è proprio la separazione dei tre poteri fondamentali che governano una nazione: legislativo, esecutivo e giudiziario. E Israele si autodefinisce, da quando è nato nel 1948, l’unica democrazia del Medio Oriente.

La Corte Suprema israeliana è da tempo nel mirino delle forze politiche di destra, dei coloni e della comunità ultraortodossa, che la accusano di essere antidemocratica, ostile, se non persino schierata a sinistra. In ballo c’è ad esempio il processo in corso dal 2019 che vede per la prima volta un premier in carica imputato per frode, corruzione e abuso d’ufficio e per il quale l’attuale primo ministro Netanyahu potrebbe rischiare il carcere. Oppure le decisioni dei supremi giudici in merito agli insediamenti dei coloni costruiti su terreni di proprietà del palestinesi. Che, è bene chiarire, sono tutte illegali secondo il diritto internazionale. Nel 2020 la Corte Suprema decise ad esempio di annullare una legge che aveva legalizzato retroattivamente le costruzioni edificate dai coloni. Ancor prima, nel 2005, confermò invece il via libera al ritiro delle truppe e alla demolizione degli insediamenti nella Striscia di Gaza (una prigione a cielo aperto lunga 50 chilometri e larga meno di 10).

Tranne che in pochi casi noti ed eclatanti, raramente il sistema giudiziario israeliano è stato a favore dei palestinesi. A luglio del 2022, ribaltando una precedente decisione del tribunale distrettuale di quattro anni prima, la Corte Suprema ha ad esempio consentito ai coloni di mantenere l’avamposto di Mitzpe Kramim (vicino a Ramallah). A parere dei giudici supremi, l’acquisizione era valida in quanto condotta in “buona fede”, sulla base di una legge militare. In estrema sintesi, secondo la Corte Suprema, le autorità israeliane non sapevano che la terra era di proprietà privata (palestinese) quando l’avevano mappata per la prima volta. Una decisione che, per diverse organizzazioni non governative e a favore dei diritti umani, potrebbe aprire la strada in tutta la Cisgiordania all’acquisizione da parte dei coloni di migliaia di altre costruzioni in avamposti costruiti su terre palestinesi.

Tornando alla contestata riforma della giustizia israeliana, la goccia che ha fatto traboccare il vaso delle poteste di piazza in tutto lo Stato ebraico è stata la destituzione decisa domenica notte del ministro della Difesa, Yoav Galant. Contrario alla riforma voluta dal premier Netanyahu. Israele basa la sua stessa esistenza sulla difesa della terra che ha ottenuto e occupato. Mandare via l’uomo a cui è affidata la sicurezza dello Stato ebraico ha portato nel giro di poche ore in strada centinaia di migliaia di persone e alla proclamazione di uno sciopero generale. Al culmine di proteste cavalcate anche dai partiti di opposizione HaMachane HaMamlachti (Campo nazionale) e Yesh Atid (C’è Futuro), guidati da Benny Gantz e Yair Lapid...

L'articolo di Alessandro De Pascale segue su Atlanteguerre.it

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