Iraq: l'assedio di Falluja come Jenin?

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Da due giorni l'esercito Usa ha cinto d'assedio la città di Falluja lanciando quella che ha tutta l'aria di una punizione collettiva per i fatti della scorsa settimana, quando quattro statunitensi furono linciati dalla folla. La città è stata isolata, tutte le via di accesso sono state chiuse già da domenica e ai 300.000 abitanti è impedito di lasciare l'area. Anche ai giornalisti è stato vietato l'accesso. Una ingente forza militare, prima concentrata intorno alla città, ha iniziato ad entrare trovando forti resistenze da parte della popolazione e determinando forti combattimenti. Attacchi sono in corso dal cielo, anche con missili, su zone abitate. Rastrellamenti sarebbero in corso casa per casa e, dalle poche testimonianze, risulta che decine di iracheni sono stati uccisi. L'unico ospedale della città non è in grado di far fronte alla emergenza.

L'organizzazione "Un Ponte per" si appello al Segretario Generale dell'Onu perché cessi la carneficina e Falluja sia liberata dall'assedio e invita tutte le associazioni, i sindacati, i partiti a prendere posizione e promuovere iniziative che favoriscano la mobilitazione della comunità internazionale perché non si ripeta, proprio nei giorni dell'anniversario, quanto è già successo a Jenin.

A seguire un intervista telefonica con Fabio Alberti, presidente di un "Un ponte per Baghdad", ora a Bassora.

Fabio com'è la situazione li a Bassora?
"A caldo posso dirvi che siamo abbastanza tranquilli. La situazione è stata critica nei giorni scorsi, dopo l'occupazione sciita del palazzo del governatore americano, ma una risoluzione politica gestita dagli inglesi ha riportato tutto sotto controllo. Nessuno sparo. Si palesa semmai una certa preoccupazione tra la gente per le prossime ore. Gli avvenimenti di Baghdad e Nassirya sono la prova, per tutti, irakeni e non, che la barca fa acqua da tutte le parti."

Cosa intendi?
"Lo scontro a fuoco delle nostre truppe di questa mattina ha nuovamente evidenziato il modo, fondamentalmente sbagliato, di affrontare i problemi delle forze di occupazione. Gli italiani hanno pianificato un'operazione militare di guerra, senza prevedere un'alternativa politica. E soprattutto senza prevederne, almeno apparentemente, le conseguenze."

Ci sono, secondo te, delle responsabilità di sottovalutazione nella gestione delle operazioni?
"Il contrario forse. E' sempre più comune tra le persone che per quanto spesso gli occupanti possano essere sembrati disinformati, sprovveduti o altro, appare difficile che ora si pensi di colpire al cuore la comunità sciita senza provocare una reazione. Gli Usa hanno deciso, almeno questo traspare dalle loro azioni, una linea di rottura. Oggi come oggi pensare di arrestare il leader radicale sciita, e predisporre degli uomini e dei mezzi militari per questo, significa riaprire ufficialmente le ostilità. E questo effetto giustificherebbe l'occupazione, il mancato passaggio di consegne all'Onu e tante altre cose."

E gli italiani in questo piano che ruolo hanno?
"Gli italiani hanno molto deluso gli irakeni. Le persone normali hanno l'impressione che lo scontro sia ricercato volutamente. Che sia il prodotto di un disegno. Non mi sento di sottoscrivere questa visione, ma posso dire con certezza che di operazioni umanitarie qui, gli italiani come gli altri contingenti, non ne hanno espletate. Non sia mai che il conflitto s'infiammi di nuovo altrimenti la gente, che per adesso non ha alcuna intenzione di parteciparvi, si ritroverebbe inevitabilmente a prendere le parti dei suoi compatrioti. Una fatto grave è che le nostre truppe, secondo la politica del governo, non si sono smarcate dagli altri occupanti. Oggi anche noi italiani siamo invasori ed occupanti al pari degli anglo-americani. Dire diversamente significherebbe mentire."

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