Il nuovo corso delle politiche migratorie degli Stati Uniti

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Foto: Elias Cornejo 

Espulsi dagli USA, deportati a Costa Rica e Panama prima del rimpatrio in Asia o Africa: “Pratiche torturanti per migranti che richiederebbero asilo umanitario”.

Molte di loro scappano da conflitti, persecuzioni politiche, religiose o per l’identità sessuale da paesi asiatici, come Afghanistan, Pakistan, Cina, Nepal e Iran, o dal continente africano tra cui Etiopia, Somalia ed Eritrea. Sono solo alcune delle centinaia di persone migranti espulse dagli Stati Uniti con voli che sono atterrati in Costa Rica e Panama durante lo scorso febbraio.  

I due paesi del Centro America sono stati una tappa intermedia di deportazione per le persone migranti prima del possibile rimpatrio forzato, una procedura rifiutata da molte di loro per il rischio che implicherebbe per la loro sicurezza e sopravvivenza. È il nuovo corso delle politiche migratorie degli Stati Uniti che stanno usando Costa Rica e Panama come “ponte” per deportare persone che, per diverse ragioni, non possono tornare nei loro paesi di origine.  

“Sono persone e famiglie che sono state arrestate negli Stati Uniti, gli è stato tolto il passaporto e sono state espulse. Poi sono state imbarcate sugli aerei verso il Costa Rica e Panama senza nemmeno spiegargli in quale paese sarebbero state deportate,” dichiara Gabriela Oviedo, avvocata e coordinatrice dell’area di mobilità umana del Centro per la Giustizia e il Diritto Internazionale per il Centro America e Messico (Cejil). “Si tratta di espulsioni a catena, che gli Stati Uniti portano avanti esternalizzando e delegando la gestione delle proprie frontiere ad altri paesi. È una pratica portata avanti in un contesto torturante, tra incertezza e mancanza di informazioni, deportando persone che invece richiederebbero protezione internazionale.” 

Durante lo scorso mese di febbraio, sono partiti tre voli di deportazione dagli USA verso i due paesi centroamericani. In Costa Rica, ne sono atterrati due con a bordo 200 persone, che sono ancora detenute nel centro per migranti CATEM nella zona di Corredores, a sud del paese. “C'è una diversità di profili tra le persone deportate tra di loro ci sono minori, adolescenti, madri di famiglia provenienti da paesi extra continentali che non sono parte del Latinoamerica. Tra i tanti problemi ci sono anche quelli legati alle importanti barriere linguistiche dovute anche alla difficoltà a ottenere traduttori e personale di accompagnamento per persone asiatiche o africane,” aggiunge Oviedo. “Aspettiamo di avere la possibilità di visitarli e di verificare le loro condizioni di detenzione.” 

Per quanto riguarda Panama invece, il volo di deportazione intermedia è partito poche settimane dopo la controversia con il presidente Trump legata al controllo del canale di Panama. Infatti, lo scorso 12 febbraio è atterrato l’aereo con circa 250 persone all’aeroporto di Howard nella capitale. Dopo l’arrivo è scattata per loro la detenzione in un albergo, dalle cui finestre sono state scattate foto che le ritraevano mostrando cartelli con richieste di aiuto. In seguito sono state spostate in un centro per migranti nella zona di San Vicente, vicino alla famigerata foresta fluviale del Darien, la rischiosa rotta migratoria che unisce la Colombia a Panama. Alcune detenute, come la iraniana Artemis Ghasemzadeh, di 27 anni, parte delle giovani che hanno protestato con il movimento “Donna, Vita e Libertà” e convertita da anni al cristianesimo è fuggita dal suo paese a causa delle persecuzioni religiose. Ghasemzadeh ha denunciato via social le condizioni di detenzione inaccettabili e inumane che stanno vivendo. Per le persone deportate il ritorno nel paese di origine vuol dire perdere ogni speranza di sopravvivenza, come racconta a Unimondo Elias Cornejo del movimento di educazione popolare e promozione sociale Fe y Alegria che si occupa anche dell’accoglienza dei migranti nella capitale di Panama. L’organizzazione ha accolto le 61 persone che hanno rifiutato la procedura di rimpatrio e adesso hanno un permesso per rimanere 30 giorni nel paese, rinnovabile per altri 90.  

“Stiamo dando un alloggio, cibo e uno spazio sicuro a queste persone, vogliamo fargli prendere la decisione relativa al proseguimento del loro percorso migratorio in uno spazio sicuro e tranquillo, considerando i pericoli della loro situazione. Molte persone ci hanno raccontato di essere state vittima di abusi e violenze sessuali nel cammino, in particolare donne e ragazze,” dichiara Cornejo. La struttura ha accolto 47 donne e 17 uomini, i minori sono stati invece affidati a UNICEF. “Queste persone hanno sofferto la violazione di una serie di diritti, a partire dall'impossibilità di richiedere asilo oppure di essere trasferiti in un Paese terzo senza la loro volontà. Inoltre, sono stati trattati come criminali, ammanettati, è stata negata loro la rappresentanza legale e gli sono stati tolti i passaporti.” 

Nei prossimi mesi la pratica dei voli di deportazione intermedia potrebbe estendersi anche ad altri paesi della regione, come Guatemala e El Salvador, a causa dell’offensiva della presidenza Trump contro le politiche migratorie, che include un ampio divieto di asilo per motivi umanitari e le frontiere blindate. La prima conseguenza visibile è stata la migrazione inversa: migliaia di migranti stanno tornando dagli Stati Uniti verso il sud del continente in particolare in Venezuela e in Colombia dopo essere stati respinti ed espulsi, una situazione resa ancora più complessa dal congelamento dei finanziamenti USAID. In Guatemala, Costa Rica, Colombia oltre alla sospensione di questi fondi, parte dei quali sono andati ai programmi per i migranti, si sono aggiunte le chiusure degli uffici Mobilità Sicura, che hanno lavorato per ridurre la mortalità lungo il percorso.  

Difficoltà che non hanno fermato il lavoro umanitario di aiuto ai migranti e di denuncia. “Ci opponiamo fermamente ai voli di deportazione verso paesi terzi,” conclude Cornejo. “Ci sembra sia una crudeltà:  parte di un sistema di tortura migratoria che sta provocando una rottura totale dello stato di diritto a livello interno e internazionale.” 

Monica Pelliccia

Monica Pelliccia è giornalista freelance. È specializzata in questioni sociali e ambientali, specialmente su tematiche come la tutela della biodiversità, i diritti delle donne, le migrazioni climatiche, le popolazioni indigene e i movimenti sociali. Ha realizzato reportage, fotoreportage e video, in particolare dal Centro e Sud America, come Honduras, Guatemala, Messico, Costa Rica, Brasile, Ecuador; dalla Palestina e da diversi paesi asiatici come Cambogia, Sri Lanka e India e dall’Europa pubblicati su testate italiane e internazionali come Mongabay, The Guardian, El Pais, L’Espresso e Altreconomia.

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