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Afghanistan, andata e ritorno
Conflitti
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Malalai - Foto: M. D'Aquilio
È il 15 agosto 2021 quando i talebani entrano a Kabul e riconquistano la città. Con la presa della capitale, instaurano nuovamente il loro dominio in Afghanistan. Era durata circa vent’anni la parentesi in cui gli occidentali avevano deciso di portare la democrazia con le loro truppe. Portarla e, alla fine, abbandonarla.
Sarà una macchia indelebile che segna la presidenza di Joe Biden: sebbene a prendere accordi con i talebani e a decidere di ritirare le truppe americane fosse stato Donald Trump al primo mandato, a confermare e concretizzare questa linea è stato proprio il successore democratico.
Anche se, come occidentali, tendiamo ad avere la memoria corta, è impossibile dimenticare le immagini di migliaia di afghani e afghane assiepati davanti all’aeroporto che provano in tutti i modi a prendere un aereo. Le più strazianti, ricorderete, quelle di persone aggrappate ai carrelli di un aereo dell’Air Force, poi precipitati nel vuoto.
Oggi so che fra quelle persone c’era anche Malalai, che incontro a Trento e che, con grande generosità, ha accettato di raccontarci la sua storia.
Qualche giorno prima mi era stata mandata la foto di un diploma che Malalai aveva ricevuto in una scuola materna di Trento. I bambini e le bambine l’avevano nominata “Testimone di Pace”, dopo aver ascoltato la sua testimonianza.
In Afghanistan, dove Malalai è nata e cresciuta, inizia giovane a collaborare con UN-Habitat (programma delle Nazioni Unite per la promozione delle città sostenibili). Il caso vuole che la sua supervisor fosse una ragazza di Trento, la quale, visto l’interesse di Malalai per lo studio, le propone di applicare per una borsa di studio dell’Università di Trento, finanziata in parte dalla Provincia Autonoma.
È il 2007 quando Malalai arriva per la prima volta in Trentino.
Mi racconta dello stupore per questo mondo così diverso dal suo. Uno stupore che non ha bisogno di parole, perché glielo si legge ancora negli occhi, mentre richiama quei ricordi. Mi cita la sua bambina, che oggi ha sette anni e che, quando arrivò per la prima volta in Italia, disse: «Mamma, qui anche l’acqua ha un gusto differente!»
È il 2007, dicevamo, e Malalai arriva in un Paese dove non conosce niente e nessuno, ma sa che deve portare a casa un po’ di esami per riuscire a mantenere quella borsa di studio.
Il problema è che allora l’università non offriva ancora i corsi in inglese e così la sfida linguistica diventa un ostacolo in più da superare. Quando non trova i libri in inglese a Trento, li cerca nelle biblioteche di altre città. Siccome poi l’inglese non è la sua prima lingua, a volte è costretta a tradurre nella lingua madre, il pashtu, oppure in urdu e farsi. Ma è determinata e ce la fa: si laurea in economia e gestione aziendale.
Come spesso accade agli studenti stranieri, fin dall’inizio le era stato chiesto di firmare un documento con cui dichiarava che, una volta concluso il corso di studi, sarebbe rientrata nel suo Paese. Non è solo un impegno formale, lei vuole tornare in Afghanistan e mettere in pratica quello che ha imparato.
Torna a Kabul e lì rimane. Racconta che nella sua città d’origine, Ghazni, ormai non sarebbe più potuta tornare perché da sempre in una zona problematica. A maggior ragione adesso che i pregiudizi su di lei peserebbero troppo: è una donna che, da sola, è andata a studiare in Europa.
Nella capitale inizia a lavorare con la Ong CARE International, poi passa all’ufficio amministrativo del Presidente dell’Afghanistan, al Ministero della Finanza, fino alla Banca Mondiale.
È il 2021 e, in un attimo, tutto si frantuma.
Racconta che la popolazione era consapevole che i talebani si stessero avvicinando alla capitale, ma nessuno pensava assolutamente che tutto sarebbe successo così velocemente.
Il giorno in cui i talebani entrano in città, si era svegliata e preparata come al solito per andare in ufficio. Al tempo viveva in un appartamento al sesto piano e, mentre sta scendendo le scale, riceve una telefonata. È una sua collega dall’ufficio. Le dice di rientrare immediatamente a casa, perché i talebani sono dappertutto. Sulle prime non ci crede, ma la collega insiste e ha un tono serio. Allora torna sui suoi passi e rientra in casa. Accende la tv e capisce: non è uno scherzo, tanto meno un brutto sogno.
Dopo un primo momento di impotenza, con il marito concludono che bisogna provare a partire: «Abbiamo deciso che volevamo partire per dare un futuro ai nostri figli. Comunque fosse andata, sarebbe stato meglio che restare lì, dove una vita normale non sarebbe più stata possibile.»
Mette insieme poche cose, soprattutto quelle dei bambini, che al tempo avevano una tre anni e l’altro meno di un anno. I bancomat non funzionano, così raccoglie un po’ di gioielli e, soprattutto, i documenti di tutta la famiglia. Per ragioni di sicurezza, cancella ogni cosa dal suo laptop, ogni traccia del suo lavoro.
È rimasta in contatto con gli amici dell’università, i quali cercano una soluzione per farla partire.
Grazie agli amici in Italia entra in contatto con i militari italiani che sono ancora lì. Mi dice che anche aver lavorato per la questura in Italia come mediatrice – allora un lavoretto da studentessa universitaria – si rivela d’aiuto. Riesce ad ottenere il permesso per uscire dal Paese attraverso i corridoi umanitari. Il personale da cui viene contattata le dice di tenersi pronti a lasciare tutto al momento opportuno.
In quei pochi giorni di attesa non è possibile uscire di casa, devono arrangiarsi con il cibo che hanno. I negozi sono tutti chiusi. Anche se in strada non si vede nulla, Malalai ricorda il clima di paura che serpeggia ovunque.
Poi una telefonata. Lei e il marito prendono i bambini, le poche cose che hanno racimolato e provano a raggiungere l’aeroporto. Ma le strade sono sbarrate. I talebani hanno chiuso le vie di accesso all’aeroporto e sparano a chi cerca di oltrepassare i blocchi. Finché incontrano una persona che, in cambio di una certa somma, promette loro di farli arrivare da una strada nascosta e lasciata libera.
È difficile fidarsi di chiunque in quel momento, ma non hanno alternative. Accettano.
Fortunatamente questa persona mantiene la parola e li accompagna appena fuori dall’aeroporto. A dividerli dalla zona sicura c’è un corso d’acqua sporca, sono acque reflue fuoriuscite. Malalai ricorda che in quella piana, ad attendere una possibilità di fuga, ci sono migliaia di persone. Ci si pesta sui piedi gli uni con gli altri, non è possibile nemmeno sedersi.
Arriva sera, i bambini sono stanchi, hanno fame, piangono. Il marito di Malalai prova a chiedere ad un militare statunitense di lasciarla attraversare il corso d’acqua, almeno per potersi sedere ad allattare il bimbo. Riesce a convincerlo e Malalai si può finalmente sedere. Ma appena finito è costretta a tornare indietro.
Rimane lì in attesa, bagnata e sporca dall’acqua di fognatura. Nel frattempo si diffonde la notizia che un uomo vuole compiere un attacco suicida, proprio nella zona dove sono loro. Malalai e il marito decidono di non scappare. Le sue parole sono eloquenti: «Restare o tornare a casa, in entrambi i casi ci aspettava la morte.»
Arrivano le otto della mattina dopo. Finalmente qualcuno li va a prendere: Malalai aveva ricevuto l’indicazione di indossare una stoffa blu, che li avrebbe distinti dagli altri. Si riconoscono e quel signore convince i militari americani a lasciarli passare. Attraversano di nuovo l’acqua e salgono su una macchina.
In quel momento Malalai sviene. Ricorda di essersi risvegliata all’interno di una tenda, dove le vengono dati del cibo e dell’acqua da bere. Finalmente li fanno salire su un aereo cargo. Sono salvi.
Quell’attacco suicida è poi avvenuto davvero, mi dice.
Arrivano prima in Qatar, poi a Roma. Di nuovo qualche giorno di attesa in aeroporto. Le procedure vanno a rilento a causa del Covid. Poi vengono spostati in un campo ad Avezzano, per sette giorni e, ancora, a Napoli per altri quattordici, dove concludono la quarantena. Dall’arrivo in Italia, Malalai si mette a disposizione come interprete e mediatrice per supportare il lavoro della Croce Rossa e del personale addetto.
Alla fine riescono ad arrivare a Trento, dove ci sono gli amici ad aspettarli.
«Così abbiamo ricominciato tutto da capo: casa, scuola, lavoro. Ma almeno qui, avevamo una speranza per il futuro.»
Malalai riparte da qualche piccola mediazione, poi ottiene un contratto di collaborazione con Frontex, agenzia europea di guardia di frontiera. Passa sei mesi in Bulgaria, dove lavora come interprete e consulente per i migranti che superano il confine con la Turchia e arrivano da Afghanistan, Pakistan e Bangladesh. Infine riesce ad ottenere l’incarico di project officer per un progetto di IOM, l’agenzia per le migrazioni delle Nazioni Unite, in Giordania.
È incaricata di occuparsi delle richieste che arrivano da cittadini afghani che vorrebbero lasciare il Paese per andare negli Stati Uniti. Il suo lavoro è quello di processare le domande. Mi spiega che dopo lo screening e l’eventuale approvazione della richiesta, questi cittadini venivano destinati a Qatar, Albania e Germania, da dove poi sarebbero stati trasferiti negli Stati Uniti.
Sebbene l’attività fosse riconducibile all’agenzia IOM, la sospensione dei finanziamenti di USAID, agenzia americana per la cooperazione, decisa da Donald Trump, ha bloccato anche questo progetto.
Malalai, come tante altre persone, si è ritrovata senza lavoro dall’oggi al domani ed è tornata in Trentino.
Eppure sorride perché, almeno, ha potuto trascorrere Eid al-Fitr (la festa di fine Ramadan) con la sua famiglia. Oggi è alla ricerca di un nuovo lavoro, possibilmente in ambiti in cui possa sfruttare le capacità relazionali finora maturate e le sue competenze linguistiche.
Mentre ci salutiamo ripenso a tutto quello che ha dovuto lasciare indietro. Poco prima mi aveva mostrato delle foto della casa a Kabul in cui era andata a vivere con la sua famiglia e che aveva appena finito di arredare. Mobili e tappeti, una giovane coppia e due bambini piccoli. Una vita davanti che all’improvviso va in pezzi. «Vogliamo solo vivere in pace e in sicurezza, dare un futuro ai nostri figli e contribuire da cittadini alla società», mi aveva detto. Insomma, niente di diverso da quello che vorrebbe una qualsiasi altra persona.
Come hanno già detto molti, prima o poi la storia tornerà a chiederci il conto di quello che, come Occidente, abbiamo e di quello che non abbiamo fatto in Afghanistan; di quello che avremmo potuto e dovuto fare, o non fare, e di tutte le persone che oggi soffrono a causa di ciò che abbiamo lasciato lì.
Maddalena D'Aquilio

Laureata in filosofia all'Università di Trento, sono un'avida lettrice e una ricercatrice di storie da ascoltare e da raccontare. Viaggiatrice indomita, sono sempre "sospesa fra voglie alternate di andare e restare" (come cantava Guccini), così appena posso metto insieme la mia piccola valigia e parto… finora ho viaggiato in Europa e in America Latina e ho vissuto a Malta, Albania e Australia, ma non vedo l'ora di scoprire nuove terre e nuove culture. Amo la diversità in tutte le sue forme. Scrivere è la mia passione e quando lo faccio vado a dormire soddisfatta. Così scrivo sempre e a proposito di tutto. Nel resto del tempo faccio workout e cerco di stare nella natura il più possibile. Odio le ingiustizie e sogno un futuro green.