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Volta la carta, e viene la guerra
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Foto: Unsplash.com
Se c’è un qualcosa di inequivocabile, in questo momento, è che dalla storia non abbiamo imparato niente. Forse possiamo guardare ad altre discipline per cercare sollievo nei momenti bui di questa presa di Kabul?
La letteratura, ad esempio. Correva l’anno 1985, e l’allora 46enne scrittrice canadese Margaret Atwood pubblicava “Il racconto dell’ancella”, libro incredibile per simmetria e profonda coerenza di tutti gli elementi narrativi. Romanzo distopico, narra la storia di un regime autoritario che prende piede negli Stati Uniti. Gli estremisti, dopo aver preso il palazzo del congresso ed ucciso tutte le persone al suo interno, iniziano il loro regno regolamentando le donne ed il loro corpo. Nel libro le donne servono alla società in virtù del loro procreare. In maniera progressiva ma inesorabile inizialmente viene loro negato l’accesso ai risparmi sul proprio conto in banca; successivamente vengono licenziate ed allontanate dai posti di lavoro; infine vengono rieducate e destinate a diventare spose o amanti. Gli uomini in tutto questo se la passano un pelo meglio ma comunque non benissimo: occupano le posizioni di comando, e questo li favorisce; ma non sono comunque liberi di amare chi vogliono o di essere chi vogliono.
Non c’è salvezza nel romanzo: il finale resta aperto, ma un messaggio che passa forte e chiaro è che bisogna avere fortuna quando si nasce. Su due fronti: bisogna nascere nel momento giusto e nella parte giusta del mondo. Sennò son dolori.
Decisamente le donne, le ragazze e le bambine di Kabul sono nate nel posto sbagliato al momento sbagliato. Come nel romanzo neanche la popolazione maschile se la passa bene, per la verità. Nelle immagini delle persone che corrono dietro agli aerei per cercare di salire e scappare si vedono esclusivamente loro, peraltro. Sono immagini terribili, e ancora più terribili sono quelle dell’aereo in volo con le persone che cadono di sotto, dopo essersi aggrappate al velivolo con tutte le loro forze, ed aver resistito per quanto potevano: un pezzo che non avrei mai voluto scrivere, commenta la giornalista Marta Serafini del Corriere.
La guerra, diceva Gino Strada, non si può umanizzare: la dobbiamo abolire. La società civile europea era contraria alla guerra in Afghanistan. Invece si è voluto andare avanti, e si è andati avanti per 20 anni senza ottenere, evidentemente, risultati concreti. E forse possiamo spingerci più in là: oltre a non ottenere risultati concreti, possiamo dire di essere stati anche dannosi per la società locale?
Fawzia Koofi è parlamentare ed ex vicepresidente del parlamento afghano; è stata intervistata non più tardi di tre giorni fa da SkyTG 24. La sua storia è quella di una guerriera: la famiglia voleva un maschietto e quindi, quando è nata lei, l’hanno lasciata al sole per ore nella speranza che morisse. È sopravvissuta, e ha convinto i genitori a farla studiare. Il papà è stato ucciso dai mujaheddin alla fine del primo conflitto. Il marito è stato fatto prigioniero dei talebani, ha contratto la tubercolosi ed è morto. Lei, oltre ad essere parlamentare, cresce da sola due figli adolescenti. Lo scorso agosto hanno provato ad ucciderla, ma non ce l’hanno fatta; e lei ha continuata a lottare per i diritti delle donne e delle bambine. Prima degli ultimi avvenimenti, partecipava al tavolo di negoziato con i talebani, faccia a faccia con chi aveva provato ad assassinarla. Nell’intervista dice tutto, e non ha paura di rispondere alle domande scomode: “Noi afghani non vi abbiamo chiesto di venire a risolvere i nostri problemi. Siete venuti voi per necessità vostre di sicurezza interna. Siete venuti, e nessuno ha mai chiesto agli afghani cosa volevano, o come lo volevano. Adesso tutti se ne vanno, di nuovo senza consultare nessuno, senza programmare nessuna transizione, e noi siamo abbandonati a noi stessi”. Lei vuole rimanere: sente che deve dare un segnale. Vediamo per quanto tempo potrà restare senza essere uccisa: mentre scrivo l’ultimo suo post su Twitter è di un’ora fa. È già qualcosa.
È già qualcosa perché – e non è un segreto – i talebani stanno stilando una lista di indesiderati: attivisti per i diritti umani, donne che lavorano (soprattutto se giornaliste o attiviste), tutte e tutti coloro che collaboravano con gli occidentali – tra cui autisti, interpreti, traduttori. Queste persone che hanno aiutato l’Occidente adesso dovrebbero poter fuggire dal loro Paese in sicurezza, e invece ciò non si sta verificando. Noi occidentali stiamo scappando dal Paese e lasciando indietro chi non riusciamo a far salire a bordo.
Attiviste ed influencer afghane stanno, una dopo l’altra, cancellando tutti i propri account sui social media per la paura di essere trovate e condannate a morte. Le associazioni di volontariato ed enti no profit che operavano sul territorio stanno distruggendo ogni prova di donne afghane che hanno lavorato o sono state aiutate da loro, per provare a proteggerle. Ma i voli sono pochi o nulli ormai, ed i visti non ci sono. La rivista di geopolitica “The Atlantic” titola: “Biden’s Betrayal of Afghans Will Live in Infamy” (il tradimento di Biden ai danni degli afgani verrà ricordato come infamia). I lettori del Washington Post commentando questo articolo sul tema si chiedono invece cosa avrebbero dovuto fare oltre a quello che hanno fatto (nella loro idea, provare a portare la pace); nella maggior parte dei casi non ne possono più di questa guerra e gli va bene andarsene.
La Cina strizza l’occhio ai talebani, fintanto che gli interessi commerciali non vengono intaccati. La Russia per ora non si pronuncia. Questo, com’è chiaro, in termini di governo: l’opinione pubblica di questi Paesi spicca per assenza.
E l’Europa? Oltre a far rimpatriare “i nostri”, si preoccupa che non arrivino rifugiati dall’Afghanistan. Gli unici ad aver mostrato della pietas sono stati gli albanesi. In una lettera datata 5 agosto infatti, sei Paesi europei (Austria, Danimarca, Belgio, Olanda, Grecia, e Germania) avvisavano la Commissione europea che bisognava continuare a rimpatriare i richiedenti asilo illegali afghani, perché altrimenti si mandava il messaggio sbagliato e si rischiava che ne arrivassero ancora di più (come se il 5 agosto l’Afghanistan fosse stato un Paese sicuro dove rimpatriare le persone). Danimarca, Olanda e Germania adesso, vista la situazione innegabile, hanno fatto dietro-front. Gli altri no: tanto che il ministro degli interni austriaco ha affermato che “se le deportazioni non sono più possibili a causa delle restrizioni imposte dalla Convenzione Europea per i Diritti Umani, allora sarà necessario esplorare altre alternative” (corsivo della giornalista).
Se la politica in queste ore sta dimostrando la sua completa inutilità ed incapacità di gestire la situazione, la società civile – come accade sempre più spesso – si muove, per fortuna. In Italia la Comunità di Sant’Egidio ha iniziato a chiedere nuovi corridoi umanitari, e non sono i soli. Emergency continua ad essere presente e a curare le persone: purtroppo, ora riescono a seguire solo i casi più disperati perché i numeri sono elevati. E poi via via anche altre: CISDA – Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane Onlus, e Pangea.
Stiamo a vedere.
Novella Benedetti
Novella Benedetti

Giornalista pubblicista; appassionata di lingue e linguistica; attualmente dottoranda in traduzione, genere, e studi culturali presso UVic-UCC. Lavora come consulente linguistica collaborando con varie realtà del pubblico e del privato (corsi classici, percorsi di coaching linguistico, valutazioni di livello) e nel tempo libero ha creato Yoga Hub Trento – una piattaforma che riunisce varie professionalità legate al benessere personale. È insegnante certificata di yoga.