Afghanistan 2014, tutte le incognite della transizione

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Quali sono le ragioni del conflitto in Afghanistan? Come risolverlo? Cosa ci si aspetta per la fase successiva alla fine della missione Isaf della Nato? Sono queste le principali domande attorno alle quali si articola la ricerca “Aspettando il 2014: la società civile afghana su pace, giustizia e riconciliazione”. Realizzata da chi scrive e parte di un più ampio progetto promosso dalla rete della società civile “Afgana” e dalla Ong Arcs in partenariato con Oxfam Italia, Nexus e Aidos, la ricerca è il risultato di quasi cinque mesi di lavoro sul campo in sette diverse province afghane (Balkh, Bamiyan, Farah, Faryab, Herat, Kabul, Nangarhar).

Gli argomenti discussi con i rappresentanti della società civile afghana incontrati sono quattro: 1) le cause del conflitto e le ragioni della mobilitazione antigovernativa; 2) il processo di pace e di riconciliazione con i Talebani; 3) il rapporto tra pace e giustizia; 4) le aspettative per il post-2014.

Quanto al primo aspetto, nelle 7 province esaminate è diffusa la convinzione che il conflitto dipenda da una combinazione di fattori interni ed esterni, ma che le sue fonti vadano individuate in primo luogo fuori dai confini dell’Afghanistan. Quella afghana sarebbe una guerra alimentata dai paesi stranieri, l’esito di un nuovo “Grande Gioco”. Iran e Pakistan sono i paesi a cui vengono imputate molte responsabilità, perché non solo ostacolerebbero i tentativi di pace, ma alimenterebbero in modo attivo il conflitto. Una parte degli intervistati nutre dubbi e sospetti anche nei confronti dei paesi che fanno parte della missione Isaf-Nato (in particolare degli Stati Uniti), considerati attori disposti a sostenere gli “insorti”, pur di perseguire i propri obiettivi strategici nella regione.

Tra i fattori interni che causano la mobilitazione antigovernativa viene unanimemente sottolineato il deficit di fiducia nei confronti del governo, percepito come illegittimo, corrotto impermeabile alle richieste dei cittadini: “La forza dei gruppi antigovernativi è la debolezza del governo”, sostengono gli intervistati. Alla base dello scarso consenso del governo vi è un diffuso senso di ingiustizia, attribuito a due elementi in particolare, la corruzione e la cultura dell’impunità, alla cui diffusione avrebbe contribuito anche la comunità internazionale, appoggiando i “signori della guerra”. L’altro fattore enfatizzato è il sospetto reciproco tra le varie comunità etniche del paese, le cui differenze sarebbero state strumentalizzate e politicizzate nel corso dei precedenti decenni di guerra.

Quanto al secondo aspetto, quello relativo al processo di pace, tra gli intervistati prevale l’idea che la soluzione militare si sia rivelata inefficace e che sia indispensabile seguire la via del dialogo politico, attuando un piano di riconciliazione nazionale. Emerge però una forte critica al modo in cui è stato condotto finora dal governo afghano e dalla comunità internazionale: gli intervistati contestano la mancanza di chiarezza e chiedono di sapere chi debba parlare con chi, a proposito di cosa, per quale scopo. Si registrano aspettative molto basse sulla possibilità di trovare un accordo di pace con i Talebani e con gli altri gruppi antigovernativi prima della fine del 2014. Tra gli ostacoli elencati, vi è l’inadeguatezza dell’Alto consiglio di pace (l’organismo istituito nel 2010 dal presidente Karzai per negoziare con i Talebani) come mediatore tra gli attori in conflitto. Si registra inoltre la tendenza a sostenere l’ipotesi che i Talebani possano ottenere posizioni di potere in un futuro governo di “ampia coalizione”, a condizione che ciò serva davvero a porre fine al conflitto e che non pregiudichi l’architettura politico-istituzionale creata nel 2001. Le aspettative che i Talebani siano in grado o siano disposti a soddisfare le condizioni poste dal governo afghano sono molto basse. Gran parte degli intervistati reclama inoltre un doppio approccio al processo di pace, distinguendo tra “pace politica” e “pace sociale”: al processo politico-diplomatico che punta nel breve periodo all’interruzione del conflitto dovrebbe accompagnarsi un parallelo processo sociale di lungo periodo che punti alla ricostruzione delle relazioni e della fiducia tra le comunità locali.

In relazione al terzo ambito di ricerca, va notato che pace e giustizia sono percepite come aspirazioni complementari, non reciprocamente esclusive o incompatibili. Per la maggioranza degli intervistati l’ingiustizia è uno degli elementi che più contribuisce ad alimentare il conflitto. Si ritiene che ignorare le richieste di giustizia per i crimini passati e presenti indebolisca un eventuale accordo di pace, incrementi le ragioni dell’insicurezza, favorisca la violenza. L’idea sottostante è che una vera riconciliazione passi per il riconoscimento pubblico della verità storica, senza il quale potrà darsi un semplice accordo politico che miri all’interruzione momentanea del conflitto, non una pace destinata a durare nel tempo. C’è però una forte discrepanza tra ciò che gli intervistati desiderano e ciò che realisticamente si aspettano di ottenere: coloro che in passato si sono macchiati dei crimini più gravi oggi detengono un potere (militare, politico, economico) troppo ampio perché possano essere giudicati. Sia il governo afghano sia la comunità internazionale vengono fortemente criticati per il disinteresse dimostrato su questo tema.

Nell’ambito delle valutazioni sull’attuale fase di transizione e sulla fase post-2014, il primo, prevedibile elemento da registrare è l’incertezza che domina i sentimenti, modella le aspettative, genera timori. É molto diffusa la preoccupazione che il paese possa essere abbandonato dalla comunità internazionale, insieme alla convinzione che sia ancora estremamente fragile in termini politico-amministrativi, sociali, economici, militari. Anche per questo, viene chiesto un ulteriore impegno da parte della comunità internazionale, che sia modellato sulle aspettative degli afghani e che rifletta un cambio di paradigma: da un approccio fondato sulle priorità militari a un approccio fondato sulle priorità civili.

In termini generali, per i rappresentanti della società civile incontrati la comunità internazionale può gestire la transizione e il ritiro in due modi opposti. Usando la retorica del disimpegno e della restituzione della sovranità per abdicare alle proprie responsabilità, girandosi dall’altra parte dopo aver fatto le valigie, oppure al contrario come l’occasione – forse l’ultima disponibile – per restituire autonomia agli afghani senza far venir meno l’impegno futuro, anzi modellandolo sulle esperienze accumulate in questi anni e soprattutto sulle aspettative degli afghani, fin qui relegate ai margini del dibattito politico.

Giuliano Battiston

(Giornalista e ricercatore freelance, scrive per il manifesto, l’Unità, Inter Press Service, Lo Straniero. Cura il programma del Salone dell’editoria sociale di Roma. Si occupa di Afghanistan con ricerche, viaggi e reportage. È autore di tre ricerche sull’Afghanistan e di due libri intervista sulla globalizzazione).

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