Varanasi: viaggio nel cuore della spiritualità indiana

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VARANASI - Molti dicono che per visitare Varanasi bisogna “essere pronti”. Così ho aspettato il mio terzo viaggio in India sapendo bene che non si è mai pronti abbastanza. Ho letto, ho parlato con amici che ci sono stati e ora posso dire che Varanasi è un’esperienza talmente forte e unica che forse è meglio non sapere nulla ma semplicemente viverla. E raccontarla è un po’ tradirla. Quindi il mio consiglio è: leggete o non leggete ma soprattutto andate e vivetela con i sensi spalancati, con le emozioni e con la pancia e Varanasi si depositerà per sempre nel vostro cuore.

Questo è quello che è successo a me. Appena arrivata, ho cominciato a esplorare i 6 km di ghat, le gradinate che scendono sul Gange, dove i pellegrini si dedicano a preghiere e abluzioni. La prima impressione è di serenità. Sulla sponda sinistra del fiume la vita scorre con i suoi riti mentre sulla destra non succede nulla e non c’è nulla. Per fortuna ci sono stata 4 giorni perché Varanasi, la città sacra a Shiva, nata nel 1.200 a. C. quando i Kashi, una tribù ariana si stabilì sulle rive del Gange alla confluenza dei fiumi Varuna e Asi, è molto più una città da vivere, è un’esperienza che non si dimentica più.

Se sul fiume ci sono pellegrini, turisti, santoni, sedicenti esperti di oroscopi, bufale e mucche, venditori di collanine e passaggi in barca, guide turistiche, dietro i ghat, le viuzze sono così strette e labirintiche che una moto e una mucca non riescono a passare. E la vita e la morte dialogano continuamente perché a Varanasi si viene a morire: se si muore qui, sulla sponda sinistra o si arriva 24 ore dopo la morte, si viene cremati e le ceneri vendono buttate nel Gange si raggiunge la moksha, la liberazione dal ciclo infinito delle reincarnazioni che ci condanna a rinascere nel mondo di maya, l’illusione terrena. E così che le pire funebri di Manikarnika Ghat e Harishchandra Ghat non smettono mai di bruciare e di emanare nell’aria un odore acre e pungente, l’odore delle vite che sono state. Qui gli addetti alla cremazione sono i dom, intoccabili in tutta l’India che però a Varanasi sono considerati gli assistenti di Shiva, i traghettatori nell’ultimo viaggio.

Il regalo più bello che ti fa Varanasi, oltre ad essere estremamente fotogenica, è di metterti in contatto con la tua parte più spirituale ma con lo spirituale indiano che è anche molto concreto e terreno, che mischia incenso e denaro, fiori e preghiere, templi raccolti e luci al neon. Dall’alba al tramonto si prega, ci si lava, si osserva la vita e la morte darsi la mano, si va in barca lasciando lumini e fiori nel fiume. Ogni tanto galleggia qualcosa di gonfio: è un corpo, perché donne incinte, sadhu, bambini, lebbrosi e morsi dal cobra non vengono cremati, ma qui la morte non ha nulla di macabro o morboso o inquietante, semplicemente è l’altra faccia della vita, è quello che ci permette di godere di ogni istante finché siamo vivi. Oltre a questa Varanasi c’è quella dell’Università vivacissima con tutte le facoltà, immersa in un parco verde e tranquillo, quella del Palazzo Reale sull’altra sponda, quella dei templi assediati dai pellegrini e ipercontrollati dalla polizia. Ma appena mi allontano dalla Ganga, la grande madre che scorre, dove tutto comincia e tutto finisce, lei mi richiama di un richiamo viscerale e antico e così durante la pooja della sera, la preghiera al tramonto, officiata da 6 ragazzi elegantissimi con canti, mantra, conchiglie che si suonano come strumenti a fiato e che fanno vibrare l’anima, piume, candele, stoffe, fuochi, mi sciolgo in un pianto di pura commozione e le mie lacrime cercano l’acqua della Ganga per scorrere con lei.

Francesca Rosso

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