Quel mercato né bianco né nero… ma grigio

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La vita non è bianca o nera, ma ha mille sfumature di grigio… solo che non si tratta di quelle più note e ammiccanti di certa letteratura, né di saggezza da cioccolatino. Qui ci si muove sul terreno scivoloso delle dinamiche di mercato.

Con “mercato grigio” si definisce il flusso di beni tramite canali di distribuzione diversi rispetto a quelli autorizzati dal produttore ufficiale. A differenza del mercato nero, non si tratta di prodotti illegali, ma di prodotti venduti fuori dai normali canali di distribuzione, per lo più da società che non hanno nessun accordo né autorizzazione da parte del produttore dei beni, con lo scopo di proporre la merce a prezzi vantaggiosi, soprattutto quando la differenza tra un Paese e un altro è notevole. Sono casistiche che riguardano soprattutto le sigarette e la strumentazione elettronica: il prodotto viene acquistato dove il prezzo è più favorevole, importato legalmente sul mercato finale e poi venduto a un prezzo conveniente per il rivenditore e per il consumatore. Un sistema a cui è spesso difficile risalire per verificarne le irregolarità ma che, se le sole stime statunitensi possono darci un’idea delle sue proporzioni globali, si aggira intorno a 40 miliardi di dollari annui.

E’ evidente come in un contesto di economia in recessione, l’importazione di beni “grigi” aumenti. Prendiamo il caso degli Stati Uniti: i commercianti che si muovono su queste sfumature riescono ad acquistare all’estero gli stessi prodotti dei rivenditori ufficiali a prezzi decisamente ridotti, sia perché i beni venduti all’estero non hanno bisogno delle stesse certificazioni e garanzie necessarie all’interno dei confini americani, sia perché vengono prodotti con componenti meno costose e non corrispondono agli standard di sicurezza o di rispetto ambientale previsti dalla legislazione statunitense. In fondo alla filiera di questo commercio senza fili, quello che giunge al consumatore finale è un prodotto spesso insoddisfacente, che nella maggior parte dei casi non ha subito controlli di qualità, verifiche per l’etichettatura e per altri aspetti fondamentali che ne certificano le condizioni. Senza contare che i costi interni comprendono anche aspetti di comunicazione, marketing, pubblicizzazione, garanzia e assistenza che i commercianti “grigi” non sostengono, ma di cui di fatto beneficiano, così come possono trarre vantaggi dalle fluttuazioni nei cambi di valuta. 

Insomma, un mercato paralello a quello ufficiale che minaccia seriamente i distributori, soprattutto quelli americani, che investono somme significative per sviluppare i loro prodotti e costruire una filiera di fiducia e una rete di servizi intorno alla loro realizzazione ma di cui poi rischiano di veder mietere vantaggi ad altri. La lotta a queste dinamiche passa attraverso un monitoraggio costante dei negozi online, dei quali si serve la maggior parte dei rivenditori grigi, facendo caso soprattutto a qualche segnale sospetto, come ad esempio l’assenza di prezzo (per sapere il quale si chiede invece di inviare una mail o telefonare) o di numero di serie dell’articolo. Ma si tratta di una battaglia complessa e complicata, che deve avvalersi necessariamente anche di altri mezzi per smascherare i rivenditori non ufficiali: entrano in gioco ancora una volta i consumatori, ai quali si chiede di segnalare differenze o anomalie nelle caratteristiche dei prodotti acquistati rispetto a quelle descritte, operazione che va anche a vantaggio del consumatore stesso. Essendo infatti i prodotti del mercato grigio venduti senza autorizzazione essi sono dunque anche senza garanzia da parte dell’azienda che ne detiene il marchio.

Strategie che comunque non escludono l’apertura di azioni legali (negli States nello specifico sulla base del Lanham Act), che forniscono più di uno strumento per combattere il mercato grigio, non ultimo il risarcimento economico. Da Davidoff & Cie, a John Paul Mitchel, da Montblanc Simplo a Bordeau Brothers, molti grandi marchi hanno affrontato il problema per vie legali. Non si è tirato indietro neanche il noto brand Patagonia, dalla sua fondazione attento non solo all’impatto ambientale della filiera di produzione, ma anche alla sua eticità e per questo particolarmente seccato, se vogliamo usare questo eufemismo, dalla commercializzazione di prodotti non corrispondenti agli stringenti standard identificati. Patagonia ha infatti recentemente avviato una causa legale per la violazione dei diritti di copyright contro Kimberly McHugh, un negozio online che ha utilizzato sia il logo “Fitz Roy” sia il nome stesso “Patagonia” per vendere prodotti originali su varie piattaforme commerciali, compresa quella di Amazon, senza che né McHugh né Amazon siano mai stati autorizzati come rivenditori dei prodotti. Our Little Corner, il negozio di McHugh su Amazon, è proprio un esempio di quelli che si definiscono “negozi del mercato grigio”, non avendo nessun vincolo contrattuale con Patagonia. Ed è proprio da queste situazioni che come consumatori responsabili dovremmo stare alla larga. Per il nostro bene, ma anche per non alimentare dinamiche internazionali che calpestano il rispetto della filiera, dei diritti e delle garanzie, avendo a cuore come unico vantaggio la convenienza.

Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.

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