Si chiamava Hassan

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Foto: M. Canapini ®

Belgrado. Ore 5.15. 

Deportazione di 120 migranti per mezzo di un dispiegamento di 300 uomini in divisa, forze speciali comprese. A parte sei afgani, tutti vengono caricati sugli autobus Niš Ekspres che, a sirene spiegate, partono verso chissà dove. Inevitabilmente la scena richiama l’attenzione di qualche passante, tra cui Giorgis, portiere notturno del Bristol Hotel: “Non sapremo mai dove vengono portati. Questa mattina, verso le 4.00, ho visto piombare poliziotti e militari dentro l’hotel dismesso qui a fianco, gettandosi sopra ai ragazzi. Sai, con questa storia della Belgrado sull’acqua il profitto non guarda in faccia nessuno: soppianta e costruisce. Lo scorso inverno, le barracks non sono state smantellate per le condizioni disumane in cui vivevano i migranti, come farneticavano in TV, bensì per arraffarsi i terreni, costruire un centro commerciale, piste ciclabili, dimore per ricchi. I cittadini hanno protestato (anche perché i palazzi in costruzione andranno a modificare completamente la skyline di Belgrado Vecchia), ma senza risultato. Sono troppo potenti… mentre i migranti, beh, nessuno di loro vuole rimanere qui, scappano tutti a nord: Germania, Svezia, raramente Italia”. Rispetto al 2015, nulla in città riporta traccia degli esodi in corso. La rotta balcanica è mutata ulteriormente. L’afgan park (ribattezzato così per via dei numerosi afgani presenti ogni giorno) non accoglie anima alcunaL’intero quartiere benestante citato da Giorgis è ancora lontano dall’essere realizzato. Alcuni edifici in costruzione con gru, betoniere e impalcature annesse, hanno sostituito le baracche utilizzate l’inverno scorso da circa mille migranti. In attesa di un pulmino che mi avvicinerà al centro di transito per richiedenti asilo di Bogovadja, analizzo il viale dove è avvenuto lo sgombero e la deportazione mattutina. L’esito della caccia ha prodotto sicuramente una fuga precipitosa, un parapiglia animalesco che ha lasciato sul campo corpi inanimati: spazzolini, coperte, vetri rotti. “In vita mia avevo già lavorato coi migranti ma, all’epoca (metà anni Novanta), si trattava di sfollati interni in fuga dalla guerra in Bosnia - racconta Milena, psicologa di Caritas Valjevo, maneggiando cartelle cliniche pinzate tra loro - Ora mi rendo conto che il disturbo più frequente di entrambe le categorie è la depressione. Alcuni vivono qui da uno, due anni; non hanno prospettive né slanci emotivi, il passo verso gravi disturbi psichiatrici a volte è dietro l’angolo. L’Europa è un sogno ossessivo, che logora dentro e rende irascibili. Sentimenti di disorientamento, perdita del senso di sé, comportamenti impulsivi, instabilità emotiva e inclinazione alla depressione, causata da lunghi soggiorni in un posto molto isolato (devono camminare quasi due ore per arrivare al centro più vicino) e dall’esito incerto della propria esperienza di migrazione. La cosa che mi fa più male è vedere l’ordine di questo luogo, che a noi appare come una normalissima colonia ma per loro rasenta il mondo. Fuori c’è la nazione, la diffidenza, i documenti non ottenuti”. Arman, un adolescente gentile ed energico, si è recentemente tatuato sul polso 2+2=5 a dimostrazione forse che nella vita nulla è scritto; un minorenne solitario scappato a 14 anni dall’Iran forse lo sa meglio di altri. Prima di drizzare le orecchie sorrido, notando un pieghevole tradotto in inglese: Welcome to Serbia. If you are under 18 years old, you are a child! Accompagnato da una mappa recanti i centri per richiedenti asilo e/o per minori non accompagnati: Tutin, Sjenica, Banja Koviljaca. “Vorrei raggiungere l’Italia perché lì ho diversi amici… a Milano, Trieste, Bologna. Parlo una decina di lingue tra dialetti e idiomi europei. Prima giocavo a calcio in un club di Teheran e spesso organizzavamo tournée all’estero. Purtroppo ho avuto problemi a casa: mio padre era un tipo violento e più di una volta mi ha trascinato dentro i suoi traffici illeciti. Il mio allenatore mi ha aiutato a superare il confine turco. Dalla Bulgaria in poi me la sono cavata da solo. Ho trascorso due mesi in carcere e uno per strada. Ho tentato di attraversare i Balcani da ogni parte; per un po’ ho spacciato droga in Romania, avevo 16 anni e tiravo avanti in questo modo. Ho tentato anche di frequentare una scuola serale, ma senza risultato. Ora sono qui, senza soldi, solo coi miei diciassette anni. Della vita amo due cose: Dio e mia madre. Provo a essere una buona persona nonostante i guai combinati”. Con un ghigno spavaldo privo d’arroganza, Arman mi chiede se scappare dalla legge islamica, che legittima la fustigazione per mere banalità, non sia un buon motivo per andarsene. Occorre per forza fare la fame o scappare dalle bombe per giustificare la fuga? 

Senza saperlo, a minuti sarà Elham, ex insegnate d’inglese a Tabriz, a rispondere parzialmente ai quesiti del “bambino”. La donna passeggia nell’ampio giardino del campo, accarezzando la corteccia dei tigli. “Il primo febbraio 1979, poco più di quarant’anni fa, il religioso sciita Ruhollah Khomeini arrivò all’aeroporto di Teheran dopo molti anni di esilio all’estero. Ad aspettarlo c’erano migliaia di persone che nelle settimane precedenti avevano sostenuto la rivoluzione contro lo scià Mohammad Reza Pahlavi, il re che governava l’Iran in maniera autoritaria dal 1941. Khomeini era il religioso più carismatico, diventato popolare grazie alle audiocassette di propaganda spedite illegalmente dalla Francia, che gli avevano garantito un’ampia schiera di sostenitori. In breve tempo Khomeini divenne il leader della rivoluzione iraniana: marginalizzò tutte le altre forze politiche che avevano complottato contro lo scià, tra cui comunisti e nazionalisti, e impose un sistema di governo che non si era mai visto fino a quel momento. Khomeini trasformò l’Iran in una Repubblica Islamica e ne cambiò radicalmente le alleanze internazionali, con enormi conseguenze su tutto il Medio Oriente. Nel 1979 avevo dieci anni. In Iran sono cambiate molte cose, ma non il sistema di potere imposto dai primi religiosi rivoluzionari, con esiti molto controversi e discutibili. Dal momento che il pugno di ferro della rivoluzione islamica si è abbattuto sull’Iran, le donne hanno smesso di vestirsi all’occidentale e truccarsi. Abbiamo perso la libertà di esprimerci e chi era contrario veniva sbattuto in galera col rischio di morirci dentro. Mio padre era un ufficiale dell’esercito e mi ha sempre parlato bene del periodo pre-dittatoriale. Magari vivevo in una bolla, non so, ma l’economia andava bene e la popolazione era istruita. Ora gran parte del tessuto sociale vive sotto la soglia di povertà ed è il motivo per cui io e mio marito, insieme ai nostri due figli, abbiamo deciso di scappare. Al confine tra Iran e Turchia i nostri bagagli sono spariti, la polizia ha fatto finta di nulla. In qualche modo da Istanbul abbiamo preso un aereo per Belgrado e ora attendiamo lo status di rifugiati. Proprio oggi sono cento giorni che siamo qui. Inizialmente ero felice, ma ultimamente preferisco restare chiusa in camera. È umiliante e disgustoso vivere così. Appena otterremo la protezione umanitaria, contatterò l’UNHCR per richiedere un lavoro. Basterebbe così poco: aprire i confini, agevolare le procedure… Siamo esseri umani e abbiamo il diritto di emigrare dove vogliamo”. Il timore di molti è che il campo di Bogovadja, una volta passata la “grande migrazione”, diventi un centro di recupero per i migranti affetti da disturbi mentali. Di esempi ce ne sono assai e per scoprirlo è sufficiente stringere le mani di un quarto dei centoventi residenti. Come Abib, che di mestiere faceva il pompiere nello stato più settentrionale dell’India, situato perlopiù tra le montagne dell’Himalaya, il Kashmir. Per aver denunciato i colpevoli dietro al crollo di un palazzo governativo, è stato spinto alla fuga. Non ha retto alla restrizione dei closing camps circondati da filo spinato e da un paio di settimane bighellona a Bogovadja, stralunato e corroso spiritualmente.

Il “Social Cafè” gestito da Ipsia (Istituto Pace Sviluppo Innovazione Acli) garantisce un luogo caldo e accogliente dove i minori possano metabolizzare i traumi subiti, navigare in internet, giocare e imparare grazie a kit scolastici forniti. Cauti, ligi, socievoli, i minori si muovono a branchi: paiono fatti di un’altra stoffa. Manifestano un rispetto genuino verso l’anziano e nei confronti di una gerarchia sociale spesso schernita in Occidente. Dopo anni rivedo Silvia Maraone, esperta di Balcani e migrazioni, attualmente coordinatrice di progetti a tutela dei rifugiati e richiedenti asilo lungo la rotta balcanica (in particolare in Serbia e Bosnia Erzegovina) per conto di Ipsia e Caritas Italiana. È una buona occasione per ripercorre i passi e chiacchierare senza filtri. “Incontro Ipsia nel 1993 attraverso il progetto Un Sorriso Per la Bosnia. All’epoca lavoravo coi profughi in Slovenia. Bosniaci, musulmani, croati, pochi serbi. Stessa situazione di oggi, cambiano solo i paesi di provenienza. A volte mi chiedo che tipo di profuga sarei se capitasse a me… L’attesa ti uccide, credimi. Vedo tantissimi adolescenti persi, sballati, in cerca di riferimenti. Con le temperature sotto lo zero i bambini rischiano polmoniti e altre malattie respiratorie. Negli ultimi mesi, con i confini ungheresi maggiormente sorvegliati, molti tentano di attraversare i boschi tra Serbia e Croazia. Male che vada si fermano in terra croata, non sarà Schengen ma almeno è UE. In Ungheria, i cosiddetti closing camps sono accerchiati da reticolati alti tre metri e in cui hai tre ore al giorno di presunta libertà. Un paese, oggigiorno, è interessato a tenersi i profughi perché è un mercato florido, che crea posti di lavoro tra amministratori, delegati, traduttori. Il contratto europeo che sborsa soldi per arginare il flusso (come dicono i media) sta allevando generazioni rabbiose. Esempio palpabile: il padre di Noman, quel ragazzino afgano di sedici anni, laggiù, si chiama Golzanen e si è trasferito di recente in Irlanda. Noman è giunto qui con tre fratelli e la mamma, passando per la Bulgaria. Hanno i passaporti validi ma il visto arriverà tra circa un anno. Nemmeno il ricongiungimento famigliare è tollerato. Sono e siamo tutti di passaggio. In questo processo avverti un senso di comunità molto forte. Dentro al campo accadono molte cose: litigi folli, innamoramenti, amicizie, ma una volta a destinazione, ništa, non rimane nulla. La relazione si sgretola all’istante, dunque legarsi per non legarsi è l’unica maniera per rimanere sani”. La cuccuma dell’espresso mugola sui fornelli. Chiedo a Silvia di raccontarmi un aneddoto tratto dal suo blog, Nella terra dei Cevapi. “Amo scrivere e tengo faticosamente aggiornato un blog personale, con il quale tento di condividere, tra le altre cose, le voci degli invisibili. Correva la fine dell’anno 2017. Era il 19 novembre. Una fredda e buia notte lungo i binari che separano la Serbia dalla Croazia. Un gruppo di persone supera la frontiera e viene catturata dalla polizia croata. Sono partite dall’Afghanistan da più di due anni. Si tratta della famiglia Hosseini, li avevo conosciuti qualche mese prima qui a Bogovadja. Tra loro c’era la piccola Madina, sei anni. Le immagini che proprio non riesco a togliermi dalla mente sono quelle del corpo insanguinato di Madina, occhi grandi e scuri, travolta da un treno. In Europa. Sono gli invisibili. Si fanno piccoli nei bagagliai delle macchine, si nascondono tra gli alberi e le rocce. Di notte, tra i boschi, si sentono i passi e i respiri. Gli ululati dei cani, il rumore sordo dei colpi dei manganelli, le urla quando vengono pestati dalla polizia e rimandati indietro insanguinati. Corrono gli invisibili, con quelle scarpe rotte, giù dai sentieri della Pljesevica, giù per la Val RosandraQuesta estate, una mattina di luglio faceva molto caldo. Stavo tornando da Belgrado con un nuovo gruppo di volontari. Mi raggiunge la notizia che la piccola Dunja Bibi è morta. Quando l’ho conosciuta un anno e mezzo fa camminava, era una bambina paffutella con gli occhiali, un occhio lo teneva bendato per correggere lo strabismo. Se n’è andata dopo un anno e mezzo in un campo profughi serbo senza che nessuno potesse fare niente per curarla dalla malattia neuro degenerativa che l’affliggeva. Il suo cuore e i suoi polmoni sono stati gli ultimi a cedere. La vado a trovare al cimitero ogni volta che posso. Loro sono tra noi e sono l’esercito degli invisibili. È giusto che gli si dia una voce, un volto e un nome. Anche ai morti. Questo elenco è solo una piccola parte dei morti che ho trovato facendo ricerche in rete. Riguarda il 2018 e solo la Bosnia, la Serbia, la Croazia e la Slovenia. Non devono essere invisibili”. Dicendo questo, Silvia mi allunga un foglio A4. In più della metà dei decessi elencati, non ci sono nome e nazionalità. 

31 gennaio 2018: annegamento. Fiume Kupa, località Ladešići: N.N

8 marzo 2018: investimento. Autostrada altezza di Ruma: N.N

23 aprile 2018: annegamento. Fiume Sava, comune di Obrenovac: Afghanistan, 18 anni 

21 magio 2018: annegamento. Fiume Korana, comune di Cazin: Afghanistan, Omaru Khanu Momandu 

28 maggio 2018: annegamento. Fiume Drina, comune di Zvornik: N.N

15 giugno 2018: accoltellamento. Velika Kladusa: Marocco, 24 anni. 

28 giugno 2018: ritrovato corpo decomposto senza mani e testa. Località Obrov: Iran? 

5 luglio 2018: annegamento. Fiume Una, comune di Bihac: N.N

26 luglio 2018: meningite. Bihac: Pakistan, Hassan Muhamed, 19 anni.

1 agosto 2018: sparatoria. Località Dobrinci: N.N

12 agosto 2018: frana. Località Tomići, comune di Dreznica: Algeria, due N.N, 33 e 39 anni.  

Ne seguiranno altri, a decine, a centinaia, inconsapevoli di ingolfare un cimitero chiamato frontiera, colpevoli di voler vivere. Semplicemente vivere. In settembre, il giorno 9, seguirà Azzedinne Chekik, 25 anni. Morirà a Sarajevo per un tumore al cervello. Il 29 novembre annegherà nel fiume Dobra Ahmad Ibrahim, 44 anni, siriano. Il primo dicembre 2018, nel campo profughi di Adaševci, morirà un altro uomo, forse ragazzo. La ferita alla testa si porterà via anche il nome.  

“Dove saranno stati deportati tutti i migranti fermati l’altro giorno a Belgrado?” chiedo a Silvia poche ore dopo, mentre guidiamo in direzione del campo di Krnjača. “Probabilmente sono stati portati tutti quanti a Obrenovac, una ex caserma ospitante circa seicento persone, tutti maschi” risponde, nell’attimo in cui comincia a stagliarsi il perimetro esterno del campo, fatto di vecchie baracche operaie dell’era titoista riconvertite spartanamente a centri d’accoglienza. La Caritas, anche qui, offre lavatrici, PC, sostegno psicosociale, cure primarie: i casi di infezioni e scabbia sono elevati. Un operaio addetto alla manutenzione delle tubature dorme sulla ruspa. 

Matthias Canapini

Matthias Canapini è nato nel 1992 a Fano. Viaggia a passo lento per raccontare storie con taccuino e macchina fotografica. Dal 2015 ha pubblicato "Verso Est", "Eurasia Express", "Il volto dell'altro", "Terra e dissenso" (Prospero Editore) e "Il passo dell'acero rosso" (Aras Edizioni).

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