Voci dal baratro

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Foto: M. Canapini ®

Le tende del campo profughi di Idomeni, confine greco-macedone, sono decorate con scarabocchi, numeri approssimativi, disegni infantili. Alcune riportano i nomi dei piccoli migranti ignari: Rama, Yazed, Zin, Hassan. Nei terreni incolti tutti attorno, sparpagliati qua e là e mangiati dal terriccio, giacciono vestiti, peluche, scarpe, i segni tangibili della fuga.Circa 5.000 profughi al giorno, provenienti perlopiù da Siria, Afghanistan, Kurdistan (e una piccola percentuale dallo Yemen), transitano per Idomeni, proseguendo poi la rotta balcanica in direzione Europa. Cinquemila. Ogni giorno. Una perenne marea umana. Un pezzo di pane, una zuppa, qualche coperta e ricomincia il viaggio. Yalla, yalla urlano i capifila, spronando gruppi di gente a incamminarsi. Nel campo si affollano svariate categorie di uomini: disertori, feriti, invalidi, utenti psichiatrici. Un furgoncino parcheggiato in disparte vende panini e bibite fresche, sfruttando la situazione per proprio tornaconto imparziale. Farid ha 34 anni: “Vengo da Homs. Ho lasciato mia moglie e i miei tre figli sotto le bombe, con la speranza di tirarli fuori presto da quell’inferno. L’ultima figlia è nata prematura. Mia moglie ha avuto uno shock dopo che un ordigno ha colpito il nostro palazzo. Assad ci bombarda con barili incendiari e armi chimiche. In Siria è in corso un genocidio, capite? Mia madre ha un tumore allo stomaco, se ne sta seduta aspettando la detonazione a lei destinata. Ho preso la via del mare, imbarcandomi su un gommone malandato assieme ad altre quaranta persone. Siamo naufragati davanti alle coste greche ma Allah non mi ha voluto. Vedi la salsedine sui miei vestiti? Sto impazzendo, ne sono certo. Il mondo ci ha abbandonato, non valiamo più niente, le nostre vite sono un soffio. Milioni di morti e nessuno muove un dito. Questo mondo è pazzo amico mio. Guarda queste piccole creature, sono solo bambini, perché sono qui? Dovrebbero giocare, andare a scuola, dormire in un letto caldo. Perché tutto questo?” Farid ha lo sguardo perso ed un principio di follia rotea unanime nelle pupille. Prima di salutarmi arranca: “Non credere mai ai giornalisti, ai media, ai telegiornali né alle persone… non diranno mai la verità. Nella calca qualcuno si fingerà sicuramente siriano per ottenere agevolazioni così da raggiungere l’Europa sano e salvo. Non c’è più giustizia. Quale futuro ci aspetta dopo questa guerra?”. Qualcuno si attarda lungo i binari della ferrovia… occhi indagatori, occhi rarefatti, occhi cerchiati di blu. Abdel è scappato da Aleppo insieme ai suoi due fratelli maggiori. Hanno raggiunto per miracolo l'isola di Lesbo"Dove siete diretti?” chiedo. “Non lo sappiamo, in qualsiasi luogo più fortunato di casa nostra. Se non portavi la barba lunga, Daesh ti frustava. Se rubavi per sfamare i tuoi figli, Daesh ti mozzava l’avambraccio. Le decapitazioni accadevano giornalmente. Abbiamo pagato 100 dollari per superare il confine turco-siriano, alti 1000 dollari per la traversata in mare”. 

Con la barba lunga, il giaccone e lo zaino gonfio non desto sospetti. Trascorro la nottata assieme a mezzo mondo, facendo gregge intorno ad un paio di fuocherelli improvvisati, in attesa del sole. Parlo con Ahmed, 30 anni, scappato dalle campagne di Damasco insieme alla moglie e al piccolo Firas, 1 anno appena, imbacuccato dentro tre coperte di lana. "La traversata è stata difficile certo, ma almeno non ho dovuto gettare in mare il corpo di mio figlio... molte persone sono affogate nel mar Egeo. Non credere nell’umanità in quei casi. Qualcuno farebbe di tutto, anche gettare in mare un amico pur di salvarsi, credimi", sentenzia il babbo. La tensione è palpabile, le attese infinite. È un esodo senza fine, lo sgretolio della fortezza. 

Supero il confine macedone a piedi, dirigendomi con Dimitrio, un prete volontario della Caritas, al campo accoglienza di Gevgelija, dove un piccolo business si è giù creato: per tutti i migranti interessati a raggiungere Skopye, venticinque euro è il prezzo (scontato) proposto dai tassisti macedoni. Anche a Gevgelija si accalcano centinaia di persone, spingendo corpi altrui, sassi, polvere. Circondata da recinzioni di ferro e filo spinato l'onda umana continua a macinare. Qualche bimbo piange rimanendo incastrato nella calca; i padri, all’estremo delle forze, si prendono a cazzotti per non affondare. Un annuncio promulgato dai governi nelle ultime ore parla chiaro: solo i profughi provenienti da conflitti armati in corso potranno superare la frontiera. E i migranti economici? I profughi ambientali? Le vittime di violenze domestiche o faide etniche? La povertà, la siccità, l’odio non sono problemi dal quale fuggire? Dove cercare riparo? Si domandano increduli masse di giovani. Forse Abdel è uno dei "fortunati". 23 anni, aleppino, ha perso la madre e la fidanzata durante un bombardamento. Abdel si è pagato il viaggio lavorando illegalmente in Turchia per due anni, corrompendo lautamente gli scafisti turchi pur di imbarcarsi. Il gommone è affondata con quarantacinque persone a bordo; in qualche modo il giovane ha raggiunto il confine serbo, trascorrendo pure tre settimane in carcere per un motivo ancora sconosciuto. “L’80% della mia città è rimasta senza cibo, elettricità, acqua. I carri armati e i cecchini del regime pattugliavano quotidianamente le strade. Cosa potevamo fare se non scappare? In Grecia ci hanno arrestato, non abbiamo ricevuto acqua per due giorni. C’erano anche donne incinta tra noi. Parlo cinque lingue, spero mi siano utili in Germania”. I confini stanno implodendo. Man mano che ci s’avvicina al cuore d’Europa i controlli si fanno più pressanti. Tabanovce entrano in gioco le forze speciali, gli elicotteri vorticano in cielo coi fari accessi, a caccia di qualche clandestino. Nel tendone dell’Unicef, simile ai ripari di Idomeni, tanti disegni riportano lo sguardo ferito dei bambini: una casa bombardata, un barcone colmo di pupi, una fila di ometti in coda per il pane. Proseguo verso il confine serbo, con l’intento di raggiungere Presevo, altro limbo del cammino balcanico. Due contadine storte emanano Rakija solo a guardarle. Contemplano il fenomeno in atto con distacco. Sull’altro lato della careggiata afgani, marocchini, siriani vengono divisi, scandagliati, spinti in apposite carrozze ferroviarie in base alla provenienza: una sorta di carro bestiame dove trovano posto solamente coloro che vantano documenti o permessi regolamentari. Tutti gli altri vengono allontanati, come una coppia con due figli piccoli al seguito, privi di soldi, seduti su una marmorea panchina della stazioncina centrale. “Sarebbe questo il nostro treno speciale?” sentenzia Karim, un tunisino dall’aria schifata. Parlandoci scopro che Karim è una di quelle persone di cui Farid non tollererebbe la presenza. Una volta atterrato ad Atene ha fatto sparire il proprio passaporto e, fintosi siriano, è riuscito ad oltrepassare un paio di confini ed arrivare sul lato serbo. Divido la cuccetta con Oliver, un cordiale ragazzo tedesco volontario della Croce Rossa. Giochiamo amemory, con lentezza. “Non so come si metteranno le cose in Germania. Abbiamo troppi rifugiati, troppi davvero. Non c’è spazio né opportunità per tutti. È anni che mi batto per i diritti umani ma di fronte questa emergenza mi chiedo davvero come sia possibile sostenerli tutti. Forse è meglio indirizzarli altrove?”. La rete dei volontari lungo la rotta balcanica è davvero affidabile, concreta, umana. Ciò che sfugge a molti è però il dopo. Come integrarli, una volta approdati? L’unica verità consequenziale è che se si bombarda, l’essere umana scappa. Elementare, è istinto. 

Il migrante è un uomo che aspetta. Ha il corpo sospeso, la mente protesa al futuro. I bambini, estranei al nuovo mondo, guardano incantati fiumi e alberi, nevischio e chiese ortodosse. Lo sconforto degli sguardi racconta più di cento parole, più dei mille chilometri percorsi attraverso Iran, Turchia, Bulgaria, Serbia, scappando dalle vesti nere di Daesh o dai proiettili dei regimi. La famiglia afgana con cui viaggio è composta da sette fratelli e due genitori. Comunichiamo a gesti e smorfie. Racimolando pile ancora cariche, ridiamo vita a giocattoli meccanici, in una pacata pratica quotidiana mirata al necessario. Due fotografe tedesche, sfruttando una fermata, irrompono nello scompartimento. “Kabul?” Chiedono indicando il padre di famiglia”. “Nam… sì” risponde l’uomo. “Surya… foto?” replica la ragazza bionda. L’uomo questa volta non risponde, guarda fuori dal finestrino. Le fotografe scattano, imprimendo sulla scheda SD volti, intimità, movenze. Il duo si attarda, sgattaiola veloce fuori, lasciandoci solo a gustare le ultime brioche alla crema. “Lavoravo come doganiere. Nei giorni del coprifuoco sono finito sotto le mani di Daesh. Hanno ucciso i miei genitori come cani, ho visto scene orrende che non scorderò mai. Corpi di bambini tagliati a metà perché figli di cristiani. Fumo anche se non mi piace. Ho paura del futuro, qualcuno ci aiuterà? In Slovenia ci spareranno addosso?”. Zharmal ha solamente 29 anni ed un dolore immenso gli tamburella il petto. La moglie Negaynah, quatta, ha 20 anni e con stringendo al seno Fareeha, 11 mesi, ha percorso a piedi centinaia di chilometri tra fango e colline. In Bulgaria, vedendoli sbucare dal bosco, i militari non ci hanno pensato due volte. Bum, sbang. Due colpi vicini, sufficienti per mettere in fuga il trio allarmato. A Sid piove fitto. Decine di profughi vengono spinti, offesi, calciati senza ritegno. Un militare sulla cinquantina mi rifila uno schiaffone nella testa per non aver rispettato la linea. Intravedo solo gente stipata in vagoni fatiscenti. Chissà che direzione prenderanno le loro vite? Trieste bevo chay in un kebab turco, poi passeggio. La Bora si abbatte violentemente sulla città, la neve è rimasta in Slovenia, al di là del confine. In un bar, tra una Peroni e una bestemmia, vecchi intenti ad assaporare la partita dell’Inter alla TV, offrono noci da una busta di plastica. 

Diari in parte estrapolati dall’ultimo capitolo del libro Eurasia Express-cronache dai margini (Prospero Editore, febbraio 2017) 

Matthias Canapini

Matthias Canapini è nato nel 1992 a Fano. Viaggia a passo lento per raccontare storie con taccuino e macchina fotografica. Dal 2015 ha pubblicato "Verso Est", "Eurasia Express", "Il volto dell'altro", "Terra e dissenso" (Prospero Editore) e "Il passo dell'acero rosso" (Aras Edizioni).

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