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Un giorno come tanti
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Foto: M. Canapini ®
“Bihac? Ma che ci vai a fare a Bihac?” domanda incredulo il bigliettaio della stazione di Zagabria.
È la prima volta che varco il confine bosniaco da nord: case incompiute, covoni dispotici di fieno, cani randagi. Lungo un tornante svetta un’epigrafe di colore rosso: Never Forget Srebrenica. La stazione quadrilatero di Bihac, violentata da un sole cocente, è una babilonia di vite in sospeso. Profughi in attesa, mafiosi, smuggler. Nerissimi capelli rasta giacciono inestricabili sulle spalle di Diego, operatore e viandante veneziano residente da tempo in città. “L’avanzata del turismo massiccio, l’instabilità della rotta così come la scarsa gestione dei flussi migratori ha portato la municipalità di Bihac a relegare centinaia di profughi e migranti di passaggio in una vecchia casa della gioventù ormai fatiscente, chiamata Đački Dom. In molti si lamentano del turismo in calo dopo l’arrivo dei migranti in città, ma nessuno (o quasi) parla però dei benefici economici che un tale movimento di anime fornisce agli autoctoni. È un tappo che si è creato dopo la chiusura delle frontiere balcaniche meno di tre anni fa, che ha portato allo sbarramento ermetico del versante serbo, motivo per cui molte persone tentano il passaggio in Croazia da qui, o da Vledika Kladusa, un campo informale posto più a nord. In alta percentuale vengono picchiati e derubati dalla polizia di frontiera, altri muoiono o si ammalano all’interno dei campi, tantissimi vengono trasferiti in hotel, negli Squat di Sarajevo, al Dom nel caso di Bihac, ma c’è anche chi può permettersi di affittare una casa, vivere dignitosamente l’attesa e poi lasciare l’appartamento ad amici o parenti che verranno dopo. L’unica cosa certa è la scarsissima collaborazione tra ONG e associazioni locali, che di certo non aiuta a placare una situazione bollente, pronta a esplodere”. Concetto che mi verrà spiegato nuovamente da Sam, operatore bosniaco di Medici senza Frontiere: “Non c’è organizzazione né coordinamento tra il governo, i cantoni, la municipalità: tanti promettono aiuti umanitari dicendo che smuoveranno qualcosa polako polako, piano piano, in perfetto stile bosniaco, ma io sono qui dal principio, quando il campo ospitava solamente venti persone, e ho visto reale aiuto solo da parte dei volontari. Nell’ambulatorio mobile di MSF curiamo lievi ferite, allergie, tagli più o meno seri dovuti solitamente a litigi e risse all’interno del campo. Per malattie o infortuni gravi trasportiamo i profughi in ospedale. Viaggio costantemente tra Bihac e Velika Kladusa, e ho visto dottori evitare di venire a contatto coi pazienti per via dell’igiene, ma se vuoi stare qui e svolgere il tuo lavoro devi sporcarti le mani. E poi, qual è l’intento di creare campi e ghetti, quartieri, insediamenti invisibili al mondo, seppur passeggeri? Far finta che queste genti non esistano?” conclude l’infermiere sbarbato originario di Tuzla, cittadina industriale del nord-ovest.
Camminando, incrociamo palazzine crivellate da proiettili e due anziani mutilati, a ricordo di una guerra civile e di tre anni d’assedio spesso messi in disparte rispetto alla morsa di ferro in cui agonizzava Sarajevo una ventina d’anni fa. Il tetto della fatiscente struttura d’accoglienza è completamente sfondato e fradicio. La promessa del sindaco è di ricostruirlo prima del lungo inverno, che qui può arrivare anche a venti gradi sotto zero. Il pavimento è costellato di buchi da cui emergono travi e pezzi di ferro, la muratura in alcuni punti è così sottile che pare polistirolo.Scambio due parole con Arunth, diciotto anni, capelli folti e marroni, volontario. “Bihac è cambiata tanto dopo il loro arrivo. È cambiata la nostra percezione, sono cambiate le relazioni, l’economia, le strade pure. La nostra vita è mutata e, sebbene la nostra guerra sia ormai un ricordo, non ci è concesso dimenticare. Se entri nei bar e ascolti le chiacchiere, tutto ruota attorno ai profughi. Qualche anziano li discrimina, non capiscono proprio perché molti migranti giovani non restino nel Paese d’origine a combattere e difendere casa propria, come loro hanno tentato di fare negli anni Novanta. Infatti gran parte dei fondi di cui si avvale la Croce Rossa provengono da ex rifugiati bosniaci scappati in Canada, Gran Bretagna, Germania in tempo di guerra. Sappiamo cosa significa, e proprio perché siamo in Bosnia non ci è concesso dimenticare”. Un ragazzo con la flebo ficcata nella vena del braccio sinistro e una brutta infezione allo stomaco giace su una panca in legno, punzecchiato da dodici mosche. Nessuno ci fa caso, intenti come sono a dare ordini, a spostare posate e pentoloni, a cercare un angolo d’ombra. Irshad ha ricavato un salotto al secondo piano del Dom, riparandosi dalla calura con un telo di plastica blu, sedendosi affranto sopra un divano preso chissà dove. “Non capisco perché alcuni vengono deportati indietro, picchiati, derubati, mentre altri ricevono un permesso di otto giorni per soggiornare nel paese ospite. È una situazione in mano all’anarchia, puoi aiutarmi a capire? Io e mia moglie Sadaf, insieme ai nostri due figli piccoli, siamo stati respinti quattro mesi fa, e da allora viviamo qui dentro. La polizia non mi ha più ridato il cellulare, ma appena me ne procuro un altro che abbia App varie e Google Maps riprenderemo il cammino, non voglio pagare nessun trafficante per superare il confine, è ingiusto. Ognuno ha diritto di emigrare e andarsene dove vuole. Ognuno ha diritto di amare la propria terra, ma in Afghanistan è impossibile: talebani e Daesh rendono le nostre vite un inferno. Non puoi indossare orecchini, vige l’ordine categorico di portare la barba lunga, una donna sola non può camminare per strada; ma io credo che ognuno di noi debba essere libero, anche di professare la fede in cui crede. Io sono musulmano, tu cristiano, ateo, non importa, voglio solo raggiungere l’Europa e mandare a scuola i miei figli, nient’altro”. Il nastro giallo nero della policija corre da pino a pino, delimitando l’area del campo. Con un fischio la pattuglia locale, appostata all’ingresso della salita, richiama bambini, ragazzi, uomini che scendono in strada in orari scomodi alla cittadinanza, come una sorta di coprifuoco (raramente rispettato).
Alle 12:00 di un mercoledì senza nuvole, nella piazza di Bihac va in scena una manifestazione cittadina apparentemente apartitica per protestare contro i fondi dell’Unione Europea dati alla Bosnia per gestire i flussi migratori. Fondi di cui Bihac, a detta dell’organizzatore, non ha visto nemmeno un centesimo. “Perché qui non arriva nulla? Vorremmo solo una normale gestione dei flussi, perché devono invadere proprio Bihac?” tuona un signore di mezza età con la pancia pronunciata. In un lampo spunta un cartello, tenuto ben saldo da un giovane con la faccia squadrata e le lenti degli occhiali specchiate: Migrants go home. Un uomo urla fascisti! Ventidue minuti dopo, nella piazzetta tonda rimangono solo tre aste spoglie e le telecamere in bocca al politico sornione.
Matthias Canapini

Matthias Canapini è nato nel 1992 a Fano. Viaggia a passo lento per raccontare storie con taccuino e macchina fotografica. Dal 2015 ha pubblicato "Verso Est", "Eurasia Express", "Il volto dell'altro", "Terra e dissenso" (Prospero Editore) e "Il passo dell'acero rosso" (Aras Edizioni).