Il fallimento della guerra afgana

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Mentre gli eserciti fanno le valige e' necessario fare un bilancio sull'ennesimo conflitto insensato. Il commento di Raffaele Crocco direttore del Progetto Atlante delle guerre e dei conflitti del Mondo e di Unimondo.

Nella colonna delle uscite ci sono 150mila morti da mettere in contabilità. Ci sono 2mila miliardi di dollari spesi dai contribuenti degli Stati Uniti e 8,5 miliardi di euro spesi da quelli italiani. Da mettere a bilancio anche la morte di 4mila soldati della coalizione - la maggioranza degli Usa-, 52 di questi italiani.

Sul fronte delle entrate, non c’è nulla, niente, zero.

È un vero fallimento la guerra in Afghanistan e il ritiro delle truppe Usa e Nato annunciato da Biden in questi giorni ne è solo la certificazione. Una guerra insensata - nella insensatezza assoluta di tutte le guerre - e dannosa, durata inutilmente vent’anni, che ci lascia solo una domanda: ma almeno è servita a qualcosa? La risposta è secca: no. Proviamo a capire perché, mescolando in ordine sparso ragioni ideali, cinica politica internazionale, mondo degli affari. 

La guerra doveva portare in Afghanistan democrazia e giustizia, sconfiggendo contemporaneamente al Queda e Talebani. Vent’anni dopo, l’organizzazione terroristica è ancora viva e agisce. L’unica vittoria militare sembra essere la vendetta che gli USA hanno compiuto scovando e uccidendo Osama bin Laden, responsabile della strage delle Torri Gemelle. I Talebani, invece, nel 2001, all’inizio della guerra, controllavano realmente il 30% del territorio, ora controllano le campagne. In più, torneranno a governare con il consenso internazionale, dato che stanno combattendo l’Isis assieme alle Forze di sicurezza USA.

La democrazia è rimasta altrove, in Afghanistan non è certo arrivata. La classe dirigente scelta da USA e alleati si è mostrata sufficientemente corrotta. Se la democrazia, poi, si realizza migliorando la distribuzione della ricchezza e rilanciando l’economia la missione è fallita: in 20 anni, abbiamo investito solo 29miliardi di dollari nello sviluppo del Paese, che resta tra i più poveri del Mondo. La condizione della donna è rimasta quella che era, cioè disastrosa. Inoltre, è molto probabile che riprenda con più vigore la persecuzione su base religiosa della minoranza hazara, sciita.

Per quanto riguarda il posizionamento geostrategico, meglio lasciar perdere. L’Afghanistan doveva servire agli USA come base operativa nell’Asia centrale, per controllare Cina, Russia, Iran e traffico di petrolio. Obiettivo completamente fallito. Nemmeno una porzione di territorio rimarrà sotto controllo, nonostante la guerra più lunga mai combattuta dagli Stati Uniti nella loro storia. Qualcuno di contento c’è: sono i colossi statunitensi degli armamenti. Lockheed Marti, Northrop Grumman e Boeing sono le tre più grandi industrie di armi del Mondo. Buona parte dei 2mila miliardi di dollari investiti da Washington nella guerra se li sono mangiati loro. Una forma di “Warfare” che gli Stati Uniti hanno usato spesso per rilanciare la loro economia quando in crisi.

Veniamo all’Italia: siamo in Afghanistan dal 2002. Attualmente sono schierati 800 militari, 145 mezzi terrestri e 8 velivoli per un costo di 159,7 milioni nel 2020. Complessivamente abbiamo speso, dicevamo, 8.5miliardi di euro, più o meno quanto investiamo nell'università e nella ricerca. Abbiamo avuto morti. Cosa abbiamo guadagnato? Dal punto di vista della partecipazione di nostre imprese alla ricostruzione, praticamente nulla. Nell’ottica di un nostro riposizionamento internazionale, di una crescita di prestigio nemmeno: non siamo riusciti, ad esempio, ad entrare come membri provvisori nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu, non hanno sostenuto la candidatura, preferendo l’Olanda. Nella visione della presenza in una area strategica per il passaggio dei commerci - penso alla Via della Seta o al controllo di un territorio strategico a ridosso di Cina e Russia - zero su zero: non avremo basi, accordi, niente. Certo, abbiamo alimentato la nostra industria bellica, ma niente di più. Di fatto, se vogliamo fare i conti della serva, ai contribuenti italiani questa avventura voluta dal secondo governo Berlusconi e alimentata da tutti, tutti i governi successivi, è solo costata un mucchio di denaro. Che ad essere cinici, viene da dire: se vogliamo violare la Costituzione e fare la guerra, almeno facciamola per guadagnarci qualcosa.

Insomma, il bilancio è negativo, per tutti. Lo è per chi pensa sia stata una guerra in nome della democrazia. Lo è per chi da sempre sostiene che è stata solo un’altra guerra senza alcun senso. Soprattutto, ancora una volta a rimetterci sono state le persone normali, i troppi civili uccisi, i 4,6milioni di profughi. Poteva andare diversamente? No, non poteva, perché questa guerra non andava fatta, l’Afghanistan non andava occupato e le truppe dell’alleanza andavano eventualmente ritirate da tempo, per permettere agli afgani di trovare loro la soluzione migliore per il loro Paese. Ora qualcuno dirà: vista la situazione sarebbe meglio rimanere. Per carità, abbiamo fatto già abbastanza danni. Uno che quella realtà la conosce bene, il giornalista afgano Alidad Shiri, da anni a Bolzano, lo ha scritto: “In Afghanistan la gente ha paura, teme un'altra guerra, una guerra civile”. Siamo andati per portare democrazia e giustizia. Dopo vent’anni lasciamo sul campo solo altra paura.

Raffaele Crocco 

Raffaele Crocco

Sono nato a Verona nel 1960. Sono l’ideatore e direttore del progetto “Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo” e sono presidente dell’Associazione 46mo Parallelo che lo amministra. Sono caposervizio e conduttore della Tgr Rai, a Trento e collaboro con la rubrica Est Ovest di RadioUno. Sono diventato giornalista a tempo pieno nel 1988. Ho lavorato per quotidiani, televisioni, settimanali, radio siti web. Sono stato inviato in zona di guerra per Trieste Oggi, Il Gazzettino, Il Corriere della Sera, Il Manifesto, Liberazione. Ho raccontato le guerre nella ex Jugoslavia, in America Centrale, nel Vicino Oriente. Ho investigato le trame nere che legavano il secessionismo padano al neonazismo negli anni’90. Ho narrato di Tangentopoli, di Social Forum Mondiali, di G7 e G8. Ho fondato riviste: il mensile Maiz nel 1997, il quotidiano on line Peacereporter con Gino Strada nel 2003, l’Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo, nel 2009. 

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