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A Luanda un tavolo per la pace in Congo: è miraggio di giustizia?
Economia di guerra
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Foto: Unsplash.com
Questo articolo di Miriam Rossi, che riepiloga le tragiche vicende congolesi è stato scritto alla vigilia di un tavolo negoziale a Luanda che è purtroppo saltato. L’Alleanza del fiume Congo (Afc) – piattaforma politica che riunisce diversi gruppi armati, tra cui i ribelli del Movimento 23 marzo (M23), sostenuti dal Ruanda – ha annunciato infatti che non parteciperà ai colloqui diretti con il governo di Kinshasa che avrebbero dovuto prendere il via oggi nella capitale angolana. L’articolo però ricostruisce un contesto su cui è utile ragionare.
La Repubblica Democratica del Congo (RDC) è nel caos e non è una novità. Il generale status di insicurezza si è trasformato in caos sotto i riflettori internazionali a seguito dell’occupazione delle regioni orientali del Paese da parte dei miliziani di M23, supportati da circa 4mila militari ruandesi. Prima Goma il 27 gennaio scorso, poi Bukavu il 17 febbraio, rispettivamente capoluogo del Nord e del Sud Kivu. Una carneficina di oltre 7mila morti secondo fonti congolesi, accompagnata da violenze, stupri e distruzioni di ogni genere, e oltre 100mila sfollati quasi tutti diretti verso il Burundi, col rischio di innescare una escalation della conflittualità regionale mai sopita. Va considerato, infatti, che il Burundi a partire dal 2023 ha inviato circa 10mila militari nell’est della RDC in sostegno alla lotta contro gli oltre 100 gruppi armati che imperversano nel territorio, così anche da arginare il flusso copioso di rifugiati. Gli sfollati vanno ad aggiungersi ai circa 400mila profughi in fuga dalle violenze in Congo già all’inizio di quest’anno e, sempre secondo fonti delle Nazioni Unite, si calcolano quasi 7 milioni di sfollati interni del Congo. Di alcuni di questi fatti, degli attori sul campo e delle ragioni economico-commerciali alle origini delle azioni del M23 Unimondo aveva già fornito un quadro in un precedente articolo.
Ma ecco la notizia: martedì 18 marzo a Luanda, in Angola, saranno attivate le negoziazioni di pace “dirette” tra il governo congolese di Félix Tshisekedi e il gruppo armato M23. Un tavolo di pace difficile, con Kinshasa che ha a lungo rifiutato il dialogo con i terroristi di M23 e, inoltre, con un convitato di pietra assente al tavolo: il Ruanda. E non manca solo il piccolo Paese centroafricano che è stato indicato dall’ONU come il finanziatore del M23. In ballo c’è il controllo effettivo di una delle regioni più ricche di minerali cruciali per le tecnologie digitali in uso oggigiorno quali coltan, oro, cobalto. Anche se le speranze di una soluzione equa per il Congo Kinshasa e per la sua popolazione appare remota, in considerazione dell’alto numero di interessi in ballo, la prossima settimana gli occhi del mondo saranno puntati sull’Africa.
Tra di loro, anche gli occhi dell’Unione Europea che il 19 febbraio dello scorso anno ha firmato un Memorandum economico con il Ruanda per l’approvvigionamento di materie prime critiche. Peccato che il Ruanda non sia un Paese ufficialmente estrattore e ciò spiega ancora meglio l’intervento ruandese nella regione delle miniere del Kivu tramite le milizie armate di M23, unito al tacito consenso dell’Occidente. Anzi, venendo all’Italia, la scorsa estate il Paese ha firmato un accordo di 50 milioni di euro con il Ruanda per progetti di resilienza climatica nell’ambito del cosiddetto Piano Mattei. Un anno dopo dell’accordo tra UE e il governo di Kigali, il 13 febbraio 2025, con 443 voti a favore, solo 4 contrari e 48 astensioni, il Parlamento Europeo ha chiesto alla Commissione Europea e al Consiglio la sospensione dell’accordo (Risoluzione 2025/2553-RSP) fin tanto che il governo ruandese non proceda al ritiro delle sue truppe dal territorio della Repubblica Democratica del Congo e cessi la collaborazione con le milizie del M23. La preoccupazione per la critica situazione umanitaria nel Paese è estrema; si chiede infatti l’istituzione di corridoi umanitari, di congelare il sostegno diretto al bilancio del Ruanda e l’assistenza militare e di sicurezza alle forze armate ruandesi per evitare di contribuire direttamente o indirettamente a operazioni militari abusive nella parte orientale della RDC. Timori anche per le ingerenze della Russia e della Cina nel conflitto, interessate anch’esse al settore minerario della regione. Tante sono le azioni di pressione promosse dalla società civile per fare sì che questa risoluzione del Parlamento Europeo venga applicata. In Italia la rete “Insieme per la Pace in Congo” lo scorso 8 marzo ha lanciato un appello ai parlamentari e senatori chiedendo di fare pressione perché il Governo italiano intervenga presso la Commissione Europea e il Consiglio Europea per l’applicazione della risoluzione. Ad oggi l’appello non ha ricevuto risposta.
Il tacito consenso internazionale ha consentito questa ennesima crisi congolese, con l’attivazione di una politica mossa unicamente dalla necessità di approvvigionamento dei minerali strategici del Congo, ignorando le modalità di come ciò avviene e disattendendo ai valori europei. “L’Europa e la comunità internazionale devono mettere fine alla politica di due pesi e due misure: bisogna far rispettare i diritti umani e il diritto internazionale nel Congo. Gli interessi economici non possono prevalere sui diritti umani”, ha dichiarato l’attivista italo-congolese John Mpaliza, portavoce della rete “Insieme per la Pace in Congo”.
Cerchiamo ora di iniziare a depotenziare la perenne crisi di stampo neocoloniale.
Miriam Rossi

Miriam Rossi (Viterbo, 1981). Dottoressa di ricerca in Storia delle Relazioni e delle Organizzazioni Internazionali, è esperta di diritti umani, ONU e politica internazionale. Dopo 10 anni nel mondo della ricerca e altrettanti nel settore della cooperazione internazionale (e aver imparato a fare formazione, progettazione e comunicazione), attualmente opera all'interno dell'Università degli studi di Trento per il più ampio trasferimento della conoscenza e del sapere scientifico.