Impressioni di un italiano d’Africa

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Questo non è un articolo, né un resoconto di viaggio. Non è neppure la sintesi dei ventisette anni di vita, che mi hanno visto rimbalzare, da una sponda all’altra del Mediterraneo: da Brescia ad Algeri, da Algeri a Tunisi, da Tunisi a Trento. Questa è solo la memoria di un incontro, la cronaca di una ricerca. È un condensato di emozioni, a pochi giorni dalla fine del mio periodo di studio, alla Bourguiba School di Tunisi. È il racconto di una giornata come un’altra, in una città post-rivoluzionaria fatta di miraggi e suggestioni.

Parole scritte sulla sabbia. Nient’altro che parole scritte sulla sabbia. Goccia dopo goccia, Marzo suggeriva pensieri fatui, ed incerti, come certe nostalgie. Acqua e vento si erano dati appuntamento, quel giorno, per adempiere il lavacro delle strade: un triste rito, che svuota vie altrimenti colme di voci e di colori. La città somigliava, più del solito, alla riproduzione in scala di un percorso urbano, posto in un altrove inaccessibile, forse inesistente: un grande gioco, insondabile e un po’ malinconico. Ogni edificio, ogni oggetto, alimentava un rimpianto di cui non saprei dar ragione: la generica percezione di qualcosa che è stato e non tornerà. D’altronde, è il destino crudele della vita e delle cose: “Tutto scorre”. Se qualcuno avesse potuto udire quelle mie impressioni, tutto sommato immotivate, avrebbe certamente opposto uno sguardo ironico, se non un esplicito moto di disapprovazione. Per fortuna, i pensieri hanno il pregio della discrezione: Tunisi reclamava il suo tributo tristezza, ed io potevo ottemperare, nella solitaria intimità della meditazione. Solo la cupa sfumatura del mio sguardo tradiva la natura di quelle riflessioni, benché cercassi di mascherarla, dietro un sorriso artificiale.

A pochi passi da me, l’entrata dell’Istituto Bourguiba: con le sue strutture fatiscenti ed il suo carico di attese. Più che una scuola, pareva essere un’enorme anticamera, all’interno della quale si intrecciavano, per un secondo o per tre mesi, esperienze lontane. Un non-luogo, una beffarda allegoria dell’esistenza. Una metafora che prometteva, purtuttavia, di lasciare segni tangibili: nel ricordo, e financo nel carattere. Poiché se tutto è casuale, nulla è futile. Se tutto scorre, nulla scompare. Mi apprestavo ad entrare, come ogni giorno, dopo un risveglio faticoso, dopo una preparazione frettolosa. Mi attendevano occhi stanchi, sorrisi complici, espressioni talvolta annoiate, altre volte interrogative: la classe. Mi attendevano i caratteri oscuri, di una lingua spigolosa, estranea all’abitudine, ma indiscutibilmente famigliare: l’arabo, una lingua che parla al mio sangue, di italo-algerino. Il suono stentoreo delle voci, le litanie insistite degli esercizi di pronuncia, avrebbero accompagnato la mente, verso uno spazio dai contorni materni, ed al contempo molesti: l’Algeri delle origini, l’Algeri della memoria.

Non sarebbe stata certo la prima volta. Per una curiosa ed arbitraria sanzione, non potevo vivere, né potevo abbandonare, quella città sfrontata, di colline che incontrano il mare. Quella città rassegnata, non per questo meno fiera; ospitale, non per questo conciliante. Così maestosa, nella Grande Posta, nei quartieri francesi; così sonnacchiosa e indolente, nei percorsi serpentini della Casbah. Una città non dimentica del suo passato piratesco: amante delle contraddizioni, amante di umanità profonda e senza riscatto; sorprendente, nel legame fatto di vicoli e di passi, che unisce il profilo di un minareto alla sordida accoglienza di una casa di piacere. Algeri è così: una città donna, che si cela e si svela a piacimento, con la malizia leggera delle ragazze che la abitano.

Mi sarei perso in quella rievocazione. Anche quel giorno, mi sarei addentrato in quelle fantasticherie, tanto care al mio temperamento. Gli altri, avrebbero imputato a distrazione, o a cattiva disciplina, ciò che invece era imposto dalle leggi inflessibili di un viaggio, tortuoso e difficile: il viaggio all’interno di sé. Sì, perché io, su quella lavagna, prima ancora del significato vuoto, ed esemplare, delle frasi redatte dal professore, leggevo il mistero, doloroso ed insondabile, dell’identità. Mi indagavo. Mi esploravo. Mi approssimavo ad una risposta, di cui non coglievo mai il senso preciso, così come non coglievo mai, appieno, il significato di quelle parole. Quelle parole precarie, che incarnavano i miei interrogativi: che come essi, parevano essere scritte sulla sabbia. Sulla sabbia di un tardo inverno tunisino.

Omar Bellicini

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