Le speranze e la maschera: l’immigrazione vista dagli altri

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TUNISI - Ogni anno, migliaia di vite, di esperienze, di affetti, prendono la via del Mare, alla ricerca di una fortuna, che osa appena dichiararsi alla coscienza; di una serenità vagheggiata, timidamente invocata, nei triboli della guerra e della fame: sono i migranti, una varia umanità, che si dà appuntamento, in un tempo e in un luogo precisi, per salpare, verso le coste di un’Europa ferita dalla crisi; un’Europa che non perde, tuttavia, la forza attrattiva dell’altrove. Ma chi sono questi uomini e queste donne, che mettono a rischio la vita propria e dei prossimi più cari, pur di inseguire un sogno, dal finale spesso tragico? È quello che abbiamo cercato di capire, girando per una Tunisia divenuta anticamera del nuovo: un porto di transito, che annuncia e prepara un’esistenza diversa, ritenuta, a ragione o a torto, migliore della precedente.

“È andato, è partito”: non c’è nulla della fredda scientificità dei verbali di polizia o dell’ostentazione collerica della politica, nelle parole di Karim. Solo la semplicità di verbi quotidiani, famigliari. Solo una normalità carica di attese e accettazione: una miscela di contraddizioni, che mi lascia turbato, ma non sorpreso. Karim mi guarda con occhi complici, sornioni, in qualche modo sfrontati: parla all’europeo, a quel ragazzo che, senza maggiori meriti, possiede ciò che lui desidera: un lasciapassare, verso un mondo di infinite e indefinite possibilità. Così crede, così mi pare di intuire. Parla Karim, in un italiano esibito, imperfetto. Parla di suo fratello: lui, ha già trovato il coraggio di partire, di andarsene, da questa Tunisia senza speranze. Questo è quello che mi dice, questo è quello che smentisce, con un’espressione che tradisce una fierezza profonda: qui, si sta costruendo la democrazia, in un paese arabo, musulmano. Si sta facendo la Storia. Ma la Storia è una madre ingrata, che si nutre del pane dei figli: non c’è lavoro. Allora è giusto, sacrosanto, tentare la fortuna altrove. Non l’hanno fatto anche gli italiani? non l’hanno fatto anche i francesi e gli inglesi, in altri tempi e in altre forme? Bisogna partire. Un giorno, forse non lontano, si farà ritorno. E sarà festa grande.

Mentre parliamo, una folla caleidoscopica invade ed anima le strade: con i suoi rumori, i suoi colori, i suoi pensieri. Fra di essi, non pochi uomini con la pelle d’ebano, figli dell’Africa profonda, dell’Africa intravista e sognata, sui libri di storia o geografia: hanno l’aria smarrita, il profilo pensoso; sembrano portare i segni di un viaggio lungo e terribile, con quell’incarnato cotto dal sole, con quell’espressione che non perde memoria dei disagi. Ma forse, è solo suggestione. Anche Karim li guarda, e sembra dire: “Siamo diversi, ma fratelli, nelle speranze e nel dolore”. Gli chiedo, non privo di una schiettezza imbarazzata, da dove vengano, che cosa cerchino. Mi risponde rapido, con un tono di benevola sopportazione, che sottolinea, senza volerlo, la goffa ingenuità della domanda: “Dal Sudan, dalla Somalia, dall’Eritrea, non so, dovunque si soffra”. Taccio, cerco di ordinare le idee.

Riprendo, con l’indelicatezza di chi deve cercare di capire, di sapere: da dove è partito tuo fratello? Chi ha dovuto contattare? chi è stato necessario pagare? Cerco di ripristinare un’immagine di autorevolezza, di professionalità, servendomi di interrogativi puntuali. Mi accorgo, però, di incarnare un’apparenza vagamente poliziesca. Allora, lo guardo negli occhi, abbozzando un sorriso, cercando di comunicare un qualche senso di partecipazione, se non di amicizia. Lui, pare rispondere al mio tentativo coi i medesimi strumenti, ma il suo sorriso, contrariamente al mio, non è una mano tesa: è una porta che si chiude. Troppo rischioso fare nomi. Troppo avventato alludere a luoghi o situazioni: la pressione dei governi europei ha reso le pene severe, e questo alimenta i sospetti, il timore di delazioni, l’inquietudine che l’altro possa tradire o tradirsi. Perfino ora, che la Rivoluzione ha allentato le maglie dei controlli, con i postumi di inefficienza e lassismo, che accompagnano ogni tramonto politico.   

Il dubbio che questo “incontro” si possa risolvere in un nulla di fatto si acuisce: comincio ad avvertire il disagio di chi pone domande, che non possono avere risposta, che non vogliono avere seguito. Mi abbandonerei allo sconforto, se la curiosità sconveniente e legittima, di chi vive su di sé le asprezze di una crisi che non risparmia certo quell’Europa Felix, che forse è solo un miraggio, non mi suggerisse un ulteriore quesito. L’ultimo, l’unico possibile: “Cosa vi spinge davvero a partire? Non sapete che in Italia, in Francia, i giovani sono costretti a svolgere lavori miserabili, senza vedere un soldo? Non sapete che anche da noi si sta male, si soffre? che è facile, una volta arrivati, lontani dalla famiglia e dagli affetti, distruggere, con uno stupido errore, quello che si ha, senza ottenere nulla di ciò che si vorrebbe? Non lo sai, questo”? Karim mi guarda, con l’aria meravigliata e un po’ risentita, di chi si sente rivolgere degli interrogativi banali. Mi guarda, esita, infine replica, con voce piana ed attenta: “Lo so cosa ci aspetta”. Poche parole, che somigliano ad una confessione. Poche parole, che non celano una verità imprevista, eppure intuita: dietro la maschera, visibile, della consapevolezza, continuano a vivere tutte quelle speranze, che dimoreranno sempre in quelle terre al di là del Mare. Quelle non possono essere respinte, né arrestate.

Omar Bellicini

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