Aspettando Godot: vita e politica di una Tunisi immobile

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Una Costituzione che non c’è. Una ripresa che non c’è. Un Governo che c’è, ma è come se non ci fosse. A non mancare è solo la speranza che, ad un certo punto, prevalga il senso di responsabilità. Ma la speranza è soggetta a precisi termini di scadenza, oltre i quali si trasforma in fantasticheria, rendendo la realtà ancora più dolorosa, indigeribile. È questo, in sintesi, il contesto della Tunisi post-rivoluzionaria, dall’omicidio Belaid in poi. Dell’ormai celebre Primavera non restano che le attese. L’estate, tarda ad arrivare. Non tutti sono pronti a scommettere che arrivi. Di fatto, anche qui, si è saltati ad un autunno, che è ben più di una stagione: di quell’entusiasmo libertario, di quel richiamo all’avvenire, che aveva scosso le stanze tetre del regime di Ben Alì, sopravvive l’eco sorda e inconcludente della protesta di maniera. Un’eco che si fa chiacchiericcio diffuso, ostentazione delle proprie singolarità. Un’eco che proroga ciò che ormai è improrogabile: la doverosa convergenza verso un minimo comune denominatore.

L’alba democratica tunisina non si riduce, ovviamente, a questo: la migliore intellighenzia del Paese preme per un definitivo superamento dell’impasse. Tuttavia, nessuno è scevro da responsabilità. Non il Governo semiconfessionale di Ennahda, impossibilitato ad operare dal ritiro (aventiniano) dei deputati d’opposizione, all’indomani del caso Brahimi, e ciononostante indisponibile ad un accordo che comporti una effettiva cessione di potere. Non il presidente Marzouki, incapace di mediare, per via di un’eccessiva esposizione che, a detta di molti, riflette un personale interesse alla rielezione. Non le forze laiche: così frammentate e fatue da richiedere la supplenza, in fase di trattative, dell’U.G.T.T., l’apprezzato e potente sindacato, retto da Houcine Abbasi. Neppure quella borghesia intellettuale tunisina, che non riesce a rendersi protagonista efficace del cambiamento. Un mix esplosivo.

Una situazione tanto più preoccupante, se si considera il contesto entro cui viene ad operare: un ambiente sociale caratterizzato da un radicato disamore per le regole, aggravato da un malinteso senso di libertà, dai contorni quasi anarchici. Una tangibile incuria, che mina il funzionamento macchina civile: dalle piccole opere di manutenzione, alle grandi strategie di programmazione amministrativa. Un approccio nei confronti delle opinioni altrui, che manca di prospettiva laica, negando legittimità alle posizioni diverse, a danno di una serena e pacifica convivenza. Mancano, in definitiva, i pilastri sui quali si fonda l’edificio democratico: rispetto delle norme e accettazione del diverso da sé. Occorre cominciare da qui.

Naturalmente, è bene accostarsi alla suddetta fase politica, privi di complessi di superiorità: gli accidenti della società tunisina non sono che la manifestazione macroscopica di problemi a noi ben noti. Se può essere tracciata una differenza, col percorso italiano, essa va identificata in un eccesso di irresponsabilità, che si dimostra speculare a quell’abuso del compromesso politico divenuto, negli anni, il male oscuro della politica nostrana. Un compromesso (resosi, qui, imprescindibile), che non necessariamente deve condurre a soluzioni giuridiche d’impronta europea. Al contrario, la via maestra per un’uscita dalla crisi politica sembra legata alla apertura di una via originale, che sappia abbinare l’obiettivo della libera determinazione dell’individuo alle specificità della tradizione magrebina.

La sfida non è semplice: anche a fronte delle molteplici tensioni, che attraversano il Paese e insidiano una coesione sociale quanto mai fragile. Oggetto di particolari controversie resta la posizione riservata alla libertà d’informazione: posta sotto scacco, secondo numerosissimi osservatori, dall’attivismo di una magistratura che pare non essersi del tutto affrancata da interpretazioni autoritarie del diritto. Si inserisce in questo schema la campagna di stampa condotta dal quotidiano La Presse, in favore di Zied El Héni, giornalista colpito da un discusso mandato di cattura, successivamente ritirato, sull’onda di un’indignazione pubblica che si nutre anche dell’esasperazione derivante dalla drammatica situazione economica.

Il clima d’incertezza non manca di riverberarsi sul piano dei rapporti con l’estero. In questo campo, Tunisi appare vittima di un delicato gioco internazionale: da un lato, Arabia Saudita e Qatar, impegnati in un’opera di finanziamento dei gruppi radicali, che si dimostra strumentale ad una mutamento degli scopi originali della Primavera araba, a vantaggio di equilibri interni, altrimenti a rischio; dall’altro, l’Algeria, dedita a scongiurare un’involuzione islamista del confinante, potenzialmente esplosiva per i suoi interessi strategici. Una reazione della classe politica tunisina si rileva, a questo punto, indispensabile. L’urgenza, tuttavia, non sembra essere particolarmente avvertita. Regna, al contrario, un clima di indolente attesa. Un azzardo ed un peccato, poiché Godot potrebbe non arrivare, trasformando il pregevole esperimento tunisino in un saggio, fuori tempo massimo, di teatro dell’assurdo.

Omar Bellicini

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