Profughi: da Aleppo a Sofia

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Foto: Matthias Canapini ®

Un muro interminabile si staglia all’orizzonte. Attraversa campi, scavalca colline, taglia foreste per un totale di oltre 200 chilometri. Sulla strada per Istanbul, Lesovo è un paesino di dieci anime disperso in una campagna verdeggiante, poco coltivata. È l’ultima località bulgara prima del confine, considerato da tanti il più controllato, il più ermetico d’Europa. A poca distanza dal paesino, il territorio di Bulgaria, Grecia e Turchia convergono in un unico punto. Tre bandiere, tre lingue, tre comunità. In senso opposto, la dogana di Kapitan Andreevo, funge da porta sud-orientale per il “continente”. La quotidianità è racchiusa nel passaggio frenetico di camion e utilitarie. 

I pinnacoli delle moschee sono già abbagli. Alle prime luci dell’alba un vecchio pulmino mi abbandona di fronte alla stazione ferroviaria di Sofia. La nazione balcanica è considerata da tempo terra di transito per migliaia di richiedenti asilo, profughi e migranti. Dopo le storie raccolte in Siria nell’agosto e dicembre 2013, mi ritrovo a inseguire il flusso instancabile dell’esodo siriano. Conosco Sabrina, una giovane volontaria delle Croce Rossa all’angolo di via Pirotska. L’autobus n.101 ci conduce sul margine della periferia, in cui sorgono piccole industrie, capannoni edili ed un centro d’accoglienza denominato Voenna Rampa Camp. Gli altri due campi si ergono nelle vicinanze e danno assistenza prevalentemente a rifugiati afgani, iracheni e centro africani. Nel campo profughi di Harmanli, il più grande del paese, gli operatori dell’associazione Doctor without borders affermano senza ombra di dubbio che in Europa non si sarebbero mai sognati di trovare agglomerati in simili condizioni. È notizia recente che un giovane afghano, Khaled Hassan (22 anni) è morto nel centro di Ovcha Kupel per “mancanza di cure”. Altri suoi coetanei sono stati accoltellati nei dintorni di Harmanli causa attacchi razzisti e xenofobi. Lo denunciano gli stessi richiedenti asilo del campo, i quali hanno diffuso le immagini virtualmente.

Giunge trafelato il vice direttore, stringendo una bustina di the nella mano sinistra: “Il campo non è altro che una ex - scuola diventata centro di accoglienza per i siriani in fuga dalla guerra. Durante i mesi della grande emergenza il cortile della struttura era invaso da centinaia di tende, dentro le quali vivevano circa 800 persone. La temperatura, in inverno, si aggirava sui - 5°. Ora sono rimaste 200 persone: donne, uomini solo, nuclei famigliari, pochi anziani”. Il cortile funge da agorà per gli esiliati. Un bambino zoppo attraversa la piazza senza staccare gli occhi da terra. Al piano superiore, nell’ufficio ammuffito del vice direttore, riprendiamo il filo del discorso: “Questa struttura era una scuola - ripete - ed ora è diventata una casa per loro. Fino a pochi mesi fa la situazione era drammatica, sfuggente, vergognosa. In febbraio non c’era cibo sufficiente né acqua calda. Molti dei migranti hanno scelto di andarsene illegalmente, muovendo i passi verso il nord Europa. Non eravamo pronti a gestire un flusso simile e l’UE non ci è stata d’aiuto. La Bulgaria, dispiace dirlo, nel novembre 2013 ha approvato la costruzione di una barriera sul confine con la Turchia per impedire ai migranti di superarlo ed entrare irregolarmente. È costruita e sarà ultimata con reti metalliche e filo spinato.  Ogni 100 metri ci sarà un soldato di guardia, in modo tale che ogni militare possa sempre vigilare anche sui suoi colleghi. La prima frazione della recinzione sarà completata lo scorso settembre, è lunga 32 chilometri ed è stata costruita lungo il tratto di confine con la Turchia più di frequente attraversato dai migranti e profughi. La recinzione, in combinazione con l’aumento di fondi per i servizi di pattugliamento della frontiera, hanno fatto sì che nel 2014 (ad ora) solo 2.500 persone siano riuscite a entrare illegalmente in Bulgaria rispetto alle 11.000 del 2013. Fino a qualche decina di anni fa esisteva già un’altra recinzione, costruita per impedire ai cittadini dell’Unione Sovietica di scappare verso l’Ovest. È come se la storia si stia ripetendo”. “C’è chi ha superato ulteriori confini e si è stabilito clandestinamente in paesi vicini o chi ha trovato lavoro ottenendo i documenti come rifugiato. La preoccupazione più grande per la maggior parte di loro era ed è incappare nel trattato di Dublino 2, ossia essere obbligati a fermarsi nel primo paese in cui la polizia ha preso loro le impronte digitali. Richieste di asilo politico erano e sono all’ordine del giorno” puntualizza Sabrina.

In alcuni corridoi dell’edificio manca la luce elettrica; una decina di stanzoni sono umidi, in parte allagati, poiché dai soffitti filtra costantemente acqua piovana e muffa. Al posto delle tende, i residenti hanno appeso veli, teloni o coperte per salvaguardare la poca intimità rimasta. I panni sono stesi all’esterno, lungo fili in nailon che corrono tra un ramo e l’altro. Il 90% delle persone presenti provengono dal nord della Siria: Idlib, Aleppo, KobaneHanno raggiunto il confine turco a bordo di pulmini o vecchie automobili, per poi entrare clandestinamente in Bulgaria a piedi. Molti sono morti lungo il confine perdendosi nei boschi, come racconta Salar: “Sono scappato da Qamishli… la mia famiglia vive ancora in Siria. Ho avuto gravi problemi con l’Isis ma sono riuscito a raggiungere il confine turco e poi la Bulgaria con un piccolo gruppo di amici. Uno di loro è morto nei valichi montuosi sul confine e non l’ho più visto. So che il governo bulgaro ha dato l’ok per costruire una rete metallica alta tre metri. Lo scopo è stoppare l’avanzata di immigrati clandestini. Noi però vorremo solo rifarci una vita! Sono arrivato a Voenna Rampa una settimana fa”. Oppure la storia di Abdel, che prima di raggiungere Sofia è stato catturato a Raqqa dallo Stato Islamico e torturato per giorni. È riuscito miracolosamente a scappare ma mentre valicava il confine turco-siriano c’è stato un attentato.  Abdel si trovava a circa sette metri dall’esplosione ed il suo stomaco ora, è un triste mosaico di cicatrici e tagli. 

 Molti ragazzi hanno problemi con la polizia e spesso si registrano percosse o aggressioni da parte delle forze dell’ordine o gruppi neofascisti. Per un problema di privacy ed eventuali rischi evito di scattare foto. Ragazzi e uomini si lamentano all’unisono: “Noi vogliamo raggiungere il Nord Europa: la Germania, la Svezia, l’Olanda, non vogliamo rimanere qui, il cibo scarseggia. Ci siamo salvati dai gruppi terroristici in Siria, siamo scampati alla guerra ed ora dobbiamo pure venir picchiati dalla polizia?”. Mi divincolo dal malcontento generale e proseguo. La Croce Rossa, nell’ultima settimana, ha rifornito la struttura di nuovi forni, frigoriferi e utensili da cucina. I volontari, dai primi giorni di settembre, avvieranno un programma scolastico per i bambini del campo. È quasi l’ora di pranzo; l’ingresso per la mensa di riempie. Arriva un furgoncino bianco e qualche ragazzino scarica pentoloni colmi di riso, carne e frutta. Ogni singola persona deve essere minuta di un bigliettino con cui è permesso ritirare la propria porzione di cibo. I volontari distribuiscono le pietanze attraverso un’ampia finestra girevole e nella parte esterna, una ventina di famiglie attende il proprio turno. “L’ostacolo più grande per tutti loro è l’integrazione. Come può una persona senza lavoro, senza casa, costretto a rimanere dentro un campo per mancanza di documenti, con i figli al seguito, rifarsi una vita? Non parlano la nostra lingua, alcuni rubano per sopravvivere. Non li biasimo sai? Pensa che molte famiglie si separano, si sfaldano, si dicono addio perché un padre, ad esempio, si imbatte nelle leggi del trattato D2 mentre i figli ottengono i permessi per espatriare. È una logica malata. Molti di loro sono ancora sotto shock; c’è chi è arrivato da dieci mesi, ma anche da sette giorni. Hanno perso la loro casa, gli amici, forse figli e famigliari, salvandosi dai barili esplosivi o dai colpi di mortaio. Alcuni, è naturale, necessitano di sostegno psicologico e cure mediche”. Torno sui miei passi e cammino lungo il perimetro esterno del cortile. I bambini giocano a calcio, gli adulti siedono all’ombra di piccoli arbusti secchi, intenti a bere the.  Nessuna traccia del bimbo zoppo. 

Verso sera, in un caotico bar caffè, ho appuntamento con Ruslan: blogger, giornalista nonché fratello di Sabrina; un ragazzone dal sorriso contagioso. “Finora ci sono stati venti arresti ingiustificati da parte delle forze dell’ordine nei confronti dei giovani immigrati risiedenti a Voenna Rampa. Ho attivato campagne di sensibilizzazione per incontrare gli agenti ed avere spiegazioni. Vorrei cambiare la percezione che i bulgari hanno nei confronti degli immigrati. Una bella fetta del tessuto sociale non si preoccupa delle emergenze umanitarie né della guerra in Siria (quando ormai è arrivata dentro le nostre case)”. Continuiamo a bere discutere di tante cose: del padre nato a Damasco, dei media complici, dei confini bastardi, concordando entrambi su una cosa: spegnere la tv e leggere più libri. In un Kebab all’angolo del quartiere Mladost, riconosco l’accento dei due titolari e chiedo se per caso siano siriani. Annuiscono. Uno dei due, indicandosi il petto: “I come from Halep… now Syria no good” commenta, affettando un rotolo di carne fumante. 

Diari estrapolati dal libro “Verso Est-appunti di viaggio” (Prospero Editore

Matthias Canapini

Matthias Canapini è nato nel 1992 a Fano. Viaggia a passo lento per raccontare storie con taccuino e macchina fotografica. Dal 2015 ha pubblicato "Verso Est", "Eurasia Express", "Il volto dell'altro", "Terra e dissenso" (Prospero Editore) e "Il passo dell'acero rosso" (Aras Edizioni).

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