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Venti di guerra
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Foto di M. Canapini ®
Aeroporto di Hatai, penisola di Antakya. Campi coltivati e sacchi di immondizia fumante.
La città di Reyhanli, confine turco-siriano, accoglie circa 90.000 profughi siriani. Il 13 maggio, vicino al mercato, sono esplose due autobombe, uccidendo 51 persone e ferendone 140. Nel punto dell’esplosione è ancora visibile un enorme cratere recintato da transenne e reti metalliche. La tensione è alta. I venti di guerra, inodori, soffiano correnti che sanno di macerie e sangue. Aliti caldi di miseria e stanchezza. Un pick-up con giovani armati infagottati in kefiah rosso-bianche, sfreccia verso il campo sfollati di Atma, oltreconfine. In un ristorantino lungo una via qualunque di Reyhanli conosco Yaser, 27 anni. “Il mio villaggio a nord di Aleppo è stato completamente distrutto.
Sono emigrato in Libano e poi in Turchia. Ora vivo ad Idlib ma non vedo la mia famiglia da più di un anno.
Ho vissuto anche ad Homs e Hama. Dall’inizio della guerra ho visto tanti morti, tante bombe sganciate e naturalmente i cecchini, sempre. Il figlio di mia sorella è stato ucciso pochi mesi fa”. Hai paura, domando. “No, ormai questa è la nostra normalità, le persone in Siria non hanno più paura di morire”. Dalla penombra prodotta dalla visiera del cappello, emergono due occhi spenti e arrossati. Siamo al terzo giro di the, misura temporale delle conversazioni.
A causa della guerra Yaser ha abbandonato i corsi universitari di fisica e col tempo ha deciso di arruolarsi nelle milizie dell’Esercito Libero Siriano. È in attesa di un amico proveniente da Gaziantep, per poi dirigersi insieme verso Istanbul. Vorrebbero iscriversi all’università e continuare gli studi. Se l’amico non si dovesse fare vivo Yaser andrebbe ad Homs, si apposterebbe dietro una barricata, prenderebbe la mira e ricomincerebbe a combattere, confida.
“Finora non ho mai ucciso nessuno, ma una volta ho colpito un cecchino e non mi sono più chiesto se sia sopravvissuto o meno”. Le vie brulicano di bambini sporchi costretti a vendere biscotti, fazzoletti o mazzi di fiori per tirare avanti. “Incha’ allah. Accettare il volere divino, il gioco è nelle mani di Dio”, confabula Yaser, allontanandosi dal tavolino senza salutare.
L’unica TV del locale è un circo mediatico del terrore. Sullo schermo appaiono una decina di persone morenti, ustionate, mutilate. Intuiamo che una bomba con effetti simili al napalm è stata sganciata sopra un centro abitato. Il video amatoriale rilanciato dalla BBC è intitolato “Walking Death”. La fabbrica della morte continua a macinare, schiacciando vite umane come fossero erbacce. Come Abdullah, un omone pacifico scappato da Homs dopo che un colpo di mortaio ha distrutto la fabbrica di succhi di frutta in cui lavorava. La ditta era italiana.
Innumerevoli tende bollate UNCHR si arrampicano sul fianco di una collina sassosa. Polvere, filo spinato, ulivi secchi fanno da cornice ad una tendopoli brulicante di persone. 26.000 sfollati di cui 6.000 bambini. Solo il 20% dei presenti ha assicurato un pasto giornaliero. Le tende, 3.200 in tutto, non sono adatte per proteggersi né dal caldo né dal freddo. Frustrazione, disagio, rabbia. Il campo di Atma è suddiviso in quattro parti, le fognature sono semplici canali di scolo, buche scavate nella terra in cui galleggiano escrementi, spazzatura, vestiti sfibrati.
L’acqua scarseggia ed è distribuita tramite autobotti o piccole cisterne poste in punti strategici dell’area.
È disponibile per due ore soltanto e non è garantita la potabilità. L’energia elettrica viene erogata da un paio di generatori ma è utilizzata per illuminare solamente i siti più importanti, ossia il piccolo ospedale da campo, il magazzino, qualche sporadica tenda e l’infermeria, costituita da una brandina, due sedie ed un telone di plastica rigida. Qui, immagino donne partorire neonati, accerchiate da armi e burocrazia stantia.
Porto con me le parole di un’amica italo-siriana, Asmae. “In alcuni luoghi del mondo i bambini muoiono di noia”, dice spesso. Ma come è possibile morire di noia? Si muore di fame, sete, annegamento, mai di noia. Eppure è possibile, poiché la restrizione dei campi d’accoglienza, non luoghi, è l’apoteosi della monotonia. Il temperamento anche del più vivace dei bambini è soggetto a ricadute psicologiche fortissime. Bambini che ora raccontano delle bombe sganciate sui loro villaggi, mostrandomi dei bossoli di lanciagranate sparsi tra le tende, sotto la patina sassosa che caratterizza il paesaggio. Poco distante due fratellini scavano una buca, si infilano sotto il filo spinato eludendo i controlli delle guardie turche; superano il confine correndo con le braccia alzate al cielo, urlando: “Turkey!!!”.
Diana era un’insegnante di inglese. Ora vive in un garage di pochi metri quadri insieme a due dei suoi sei figli. Accarezza i capelli biondi della primogenita Mariam. “Non abbiamo nulla, solo i vestiti che ci vedi addosso. Questa è la nostra vita; mangiamo quando capita, spesso uova o fagioli. Mio marito con altri quattro figli sono ancora a Hama, riusciamo a sentirci ogni tanto e prego ogni giorno di rivederli presto”. Cala il buio. I canti del muezzin si accavallano tra loro. Due contadini dormono sopra un sidecar coi fanali rotti. Campi di cotone tutt’attorno.
Matthias Canapini

Matthias Canapini è nato nel 1992 a Fano. Viaggia a passo lento per raccontare storie con taccuino e macchina fotografica. Dal 2015 ha pubblicato "Verso Est", "Eurasia Express", "Il volto dell'altro", "Terra e dissenso" (Prospero Editore) e "Il passo dell'acero rosso" (Aras Edizioni).