Grandi dighe = grandi disastri!

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Anche se il Programma Ambientale delle Nazioni Unite (Unep) non ha ancora fatto rientrare l’idroelettrico tra le energie rinnovabili quella idroelettrica è in potenza un’energia preziosa e pulita. Si genera quando una certa quantità d’acqua si trova sopra il livello del mare e ha una energia potenziale che precipitando e superando un certo dislivello viene liberata e trasformata in energia cinetica. Va da sé che maggiore è l’altezza di caduta, maggiore sarà l’energia liberata grazie all’azione della forza di gravità, ed è per questo che ci sono paesi e investitori che non si stancano di puntare sulle grandi dighe anche quando le disastrose conseguenze di queste opere, non solo ambientali, su intere regioni sembrano ormai evidenti.

L’ultimo di questi disastri in ordine di tempo è un progetto del governo peruviano che intende realizzare una ventina di sbarramenti sul fiume Maranon, uno dei principali affluenti del Rio delle Amazzoni. Il corso d’acqua nasce sulle Ande e, come ha riportato l’organizzazione ambientalista Mongabay.org, un sistema di dighe potrebbe causare la lenta morte biologica del Maranon. Due delle dighe più grandi del complesso, la Veracruz e Chadin 2, hanno già ricevuto una valutazione d’impatto ambientale positiva, sebbene i lavori non siano ancora iniziati. “Chadin 2 è in assoluto il progetto più controverso, dal momento che inonderebbe oltre trenta chilometri quadrati di territorio, distruggendo la ricca biodiversità dell’area, oltre a cancellare letteralmente alcuni villaggi, determinando così lo sfollamento di oltre mille persone” ha spiegato Re-Common l'associazione impegnata da anni a sottrarre al mercato e alle istituzioni finanziarie private e pubbliche il controllo delle risorse naturali. 

Non sorprende che la popolazione locale sia fermamente contraria alla realizzazione dell’opera. “La protesta sta aumentando con il passare delle settimane, ma anche la repressione da parte del Governo, visto che almeno 60 attivisti sono sotto indagine o già oggetto di procedimenti giudiziari” ha raccontato Re-Common . Sempre Mongabay.org riferisce che, “proprio per la forte opposizione sul campo, la compagnia brasiliana Odebrecht non ha la possibilità di accedere liberamente all’area dove dovrebbe iniziare i lavori entro la prima metà del 2016”. Non sono da escludere ulteriori rinvii, nonostante la Odebrecht, che è coinvolta nello sviluppo di altri due sbarramenti sul Maranon, neghi l’esistenza di problemi. 

Ma un forte movimento di protesta organizzato da vari gruppi della società civile, in particolare dall’associazione Save Rivers, si registrano attorno ad un altro maga sbarramento: quello di Bakun in Borneo. Mentre quello di Murum e altri impianti idroelettrici sono ancora in fase di costruzione, Bakun è appena stato completato distruggendo il territorio degli indigeni Penan, Kenyah, Kayan e Iban calpestandone i diritti nonostante le comunità autoctone siano “in teoria” tutelate dalla legislazione malese in osservanza della Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Diritti del Popoli Indigeni. “Per capire i tanti motivi dell’opposizione alle dighe basta dire che la Sarawak Energy, la compagnia che ha l'usufrutto dello sbarramento, non ha mai pubblicato nemmeno uno straccio di valutazione d'impatto ambientale. E non che siano mancate le richieste” ha aggiunto Re-Common. 

Ora, purtroppo, non rimane che tamponare i danni e negoziare una qualche forma di compensazione con la compagnia e il Governo locale che la popolazione teme nasconda gravi episodi di corruzione che vedrebbero il coinvolgimento di alcuni dei suoi membri più eminenti. Per ora però l’esecutivo tira dritto nel suo programma per fornire energia elettrica ad un’area industriale utile soprattutto alle tante fonderie di alluminio attualmente in costruzione. Ma se questi sono i risultati veramente “Dobbiamo costruire altre mega dighe?” si chiedeva già nel 2014 un dettagliatissimo studio reso pubblico da un gruppo di ricercatori della Oxford University. La risposta è no e non solo per via degli evidenti impatti sociali e ambientali che hanno prodotto fino ad oggi proteste e opposizioni da parte delle comunità locali, ma anche per i risultati economici di queste grandi opere

Per lo studio inglese, che prende in esame l’efficacia di 245 dighe realizzate fra il 1934 e il 2007 in 65 stati, tre quarti delle opere costano troppo e rendono poco e hanno sforato le previsioni di spesa in media del 96%. Un record negativo assoluto che non ha certo contribuito a migliorare le condizioni di molti paesi del Sud del mondo dove buona parte di queste dighe sorgono nonostante un contesto economico in rapido mutamento a causa degli alti tassi di inflazione e di monete molto instabili. Qualche esempio? Ancora oggi il Pakistan sta pagando gli interessi su un’opera come la diga Tarbela, costruita negli anni 70 e da cui il Paese ha ricevuto ben pochi benefici. Stesso discorso per la centrale idroelettrica di Itaipù, al confine tra Brasile e Uruguay, per la quale il budget iniziale ha fatto registrare un’impennata del 240 per cento. Nel cuore dell’Amazzonia brasiliana il progetto di Belo Monte, tra i più avversati di tutto il globo, è la dimostrazione che non si ha nessuna intenzione di imparare dagli errori del passato, sebbene siano evidenti e ben documentati: si era stabilito che il tetto di spesa fosse intorno ai 14 miliardi di euro. Siamo già arrivati a oltre 27. 

La soluzione per evitare altri scempi ambientali ed economici? Per gli esperti di Oxford c’è: "basta mettere da parte le grandi dighe e affidarsi a progetti su piccola scala, a bassissimo impatto e con costi contenuti".

Alessandro Graziadei

Sono Alessandro, dal 1975 "sto" e "vado" come molti, ma attualmente "sto". Pubblicista, iscritto all'Ordine dei giornalisti dal 2009 e caporedattore per il portale Unimondo.org dal 2010, per anni andavo da Trento a Bologna, pendolare universitario, fino ad una laurea in storia contemporanea e da Trento a Rovereto, sempre a/r, dove imparavo la teoria della cooperazione allo sviluppo e della comunicazione con i corsi dell'Università della Pace e dei Popoli. Recidivo replicavo con un diploma in comunicazione e sviluppo del VIS tra Trento e Roma. In mezzo qualche esperienza di cooperazione internazionale e numerosi voli in America Latina. Ora a malincuore stanziale faccio viaggiare la mente aspettando le ferie per far muovere il resto di me. Sempre in lotta con la mia impronta ecologica, se posso vado a piedi (preferibilmente di corsa), vesto Patagonia, ”non mangio niente che abbia dei genitori", leggo e scrivo come molti soprattutto di ambiente, animali, diritti, doveri e “presunte sostenibilità”. Una mattina di maggio del 2015 mi hanno consegnato il premio giornalistico nazionale della Federazione Italiana Associazioni Donatori di Sangue “Isabella Sturvi” finalizzato alla promozione del giornalismo sociale.

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