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Se autonomia vuol dire interdipendenza
Giovani
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Spesso le persone “normali” guardano quelle “disabili” con stereotipi difficili da sradicare. Il compatimento è sempre dietro l’angolo specie per chi è accompagnato, non si muove, fatica a fare qualsiasi gesto quotidiano. “Poverino, non è autonomo in nulla”. Autonomia: una parola che rappresenta un miraggio per qualsiasi disabile. Essere autonomi: quasi un imperativo categorico per questa società. Eppure c’è un altro modo per declinare l’autonomia. La testimonianza di Chiara Lucchini.
Non serve ricorrere all’etimologia per afferrare che la parola ‘autonomia’ implica il fare qualcosa indipendentemente dall’aiuto di altri: insomma, da soli. Lo so, l’ho sempre saputo, eppure forse mi sbagliavo. Anzi, oggi a posteriori mi rendo conto di aver fatto un errore madornale anche solo nell’aver osato pensarlo. No, autonomia non è fare le cose da soli: quando le cose da sola non le puoi fare, autonomia è essere con gli altri nel fare le cose. Quella volgarizzazione del pensiero di Machiavelli rispetto ad una giustificazione dei mezzi a seconda del fine, ecco che qui calza a pennello. E così, è da essere felici quando nell’arco di cinque giorni si dorme con quattro persone diverse e non invece quando si dorme senza nessuno: significa indipendenza.
Se avessi voluto andare all’università in autonomia oggi sarei a casa a fare ben altro. Ricordo quando, durante la quinta superiore, iniziai ad informarmi sulle possibilità delle università italiane per gli studenti con una disabilità tale da aver bisogno di assistenza in molte – praticamente tutte – azioni quotidiane. Nella maggior parte le opportunità erano parecchie, ma tutte per chi riesce a gestirsi a sufficienza. Eppure, non ci credevo che la mia autonomia fosse davvero nulla. Ci doveva essere un cavillo a cui aggrapparmi. Lo trovai nell’affidarmi alla ricerca di qualcuno che sarebbe venuto a vivere con me nella realtà domotica concessami dall’università. Eccola la mia indipendenza: degli amici per il passaggio in auto, qualcuno ad aiutarmi nelle attività di casa, altri come supporto in facoltà e a lezione. Ho fatto della presenza dell’altro nella mia giornata una costante così rilevante che ora fatico a restare da sola a lungo. E questa presenza non è mai invadente, non è pesante: è ricchezza di confronto, è relazione che cresce e fa crescere.
L’ho imparato accorgendomi di un aspetto a prima vista banale: se solitamente sono da sola a stare seduta sulla carrozzina, basta davvero farsi poco di lato perché ci stia un’altra persona accanto a me. Stessa cosa in tutte le difficoltà: perché dover starci dentro da sola se c’è del posto in più?
Solo così sono poi giunta a sperimentare l’autonomia etimologica, quella “vera”: la forza di provare ad inventare soluzioni per raggiungere le cose. Circa dieci minuti di contorsionismo per infilarsi la giacca e nel frattempo è uscito il sole e fa troppo caldo per indossarla. La capacità di domandare ad un passante di farsi aprire l’ombrello o raccogliere da terra il foglio caduto.
È così che ho intenzione di progettare il mio “durante di noi“, così voglio costruire il mio futuro, quella che sarà la mia vita senza la preoccupazione di vedersi mancare un appoggio, una sicurezza. Se so di poter vivere con tutti, potrò senza fatica vivere autonoma.
Ciò non vuol dire adagiarsi, non vuol dire rinunciare a traguardi che sembrano impossibili. Anzi.
Non è solo la storia, che impregna ogni singolo, minuscolo sasso; non è solo quell’aria terribilmente densa e pungente e limpida; non è nemmeno soltanto la maestosità, l’immensità delle crode tanto rocciose, il loro sembrare così irraggiungibili. È tutto questo e non solo ad essere inconfutabile indizio del perché le Dolomiti da lunghissimo tempo siano meta e maledizione per gli uomini, uno dei motivi d’orgoglio dell’essere italiani. Una tale misteriosità, una calma assoluta che qualcuno un giorno ha paragonato al trattenere il respiro da parte della Terra: quella bellezza che è misto di splendore e paura. E per quanto ci si sforzi di descrivere la totalità di quelle montagne, l’esserci dentro, il camminarci in mezzo è sempre e comunque un’altra storia; e quanto più si sale, allontanandosi dalla sicurezza della strada e delle abitazioni, quanto più ci si addentra nel cuore di quelle naturali architetture, tanto più ci si immerge e si respira la loro grandezza. Come uscire dall’acqua e d’improvviso prendere fiato.
Meraviglia per gli occhi e per il cuore. Sospiro e fremito e pelle d’oca. Le avevo provate, queste sensazioni, ora lo so. Da piccolina, quando ancora mi si riusciva a portare in spalla, nello zainetto, devo aver vissuto qualcosa del genere. Lo dico con certezza perché, provandole di nuovo, è stato un po’ come tornare in un luogo familiare, come incontrare qualcuno che si conosce bene. Naturalezza incredibile nell’inerpicarsi fra i ghiaioni e le rocce. Di nuovo dopo anni. A volte basta un’intuizione. La più semplice, la più banale, nata facilmente da qualche remoto sogno o desiderio di fare le cose assieme: provo ad immaginarmi quella volta che un signore pensò di mettere un seggiolino sopra ad uno sci, così da far scendere dalle piste anche suo figlio, che non aveva più l’uso delle gambe. Una cosa così.
Basta il pensiero di una sedia che abbia un’unica ruota, e per compensare nell’equilibrio dei maniglioni avanti e dietro, e magari con un ammortizzatore ad attutire i colpi ed evitare di farsi del male stando seduti. Così semplice e così geniale: nasce la joelette, la carrozzina che va sui sentieri di montagna. Tanto da permettermi di tornare a casa, e con me diversi altri. A volte all’intuizione si aggiunge la bellezza di persone che, innamorate di quello che vivono, si prodigano perché possa divenire patrimonio di molti. E allora c’è chi, appassionato di montagna, decide di mettere le proprie conoscenze e i propri muscoli, sacrificando un po’ di fatica in cambio di molta soddisfazione, a disposizione di chi i muscoli non li riesce ad usare, e volentieri si affida e fida di quelle braccia, per sognare un po’.
Ne vale la pena: se ne prende consapevolezza quando il proprio sguardo, quell’inedita e nuova luce negli occhi, viene condiviso. Quando la risata non manca, non manca la gara in salita e col fiatone c’è chi azzarda lo scatto. Quando si giunge al rifugio e incomincia a piovere come non mai, o quando si riparte e spunta addirittura il sole. Ne vale la pena quando si ha la sensazione di esserci stati. Jovanotti cantava che “non c’è montagna più alta di quella che non scalerò”: credo, dopo questa esperienza, di poter dire che la montagna non è poi così alta, nemmeno per me, non di certo con gli altri, forse allora per nessuno. Ed è curioso come nel luogo meno ‘accessibile’ che si possa immaginare, proprio lì ci si senta così autonomi, liberi di affrontare qualunque vetta.
Chiara Lucchini