Come sassi levigati dalle onde

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Foto: Matthias Canapini ®

Limbo. L’impatto è forte e inatteso ma fortemente desiderato. Piombo in Mongolia sapendo poco e intuisco che (forse) i viaggi che riescono meglio sono proprio quelli che non si fa in tempo a preparare. Quelli che si affrontano con leggerezza, senza nemmeno uno straccio di guida, portandosi dietro nient’altro che l’esperienza dei nomadismi precedenti. Si viaggia assai meglio chiedendo alla gente, mescolandosi con discrezione e silenzio. Il resto è Natura, sorrisi, piedi che vagano.  Quando piove, le stradine del sobborgo di Songinorhairkhan, periferia di Ulan Bator, si trasformano in fiumiciattoli di fango e spazzatura. Tra le staccionate e le gher malandate svetta un centro diurno di colore marrone chiaro, costruito anni fa dall'associazione Bayasgalant. Il cortiletto della struttura è caratterizzato da un piccolo campo da basket, une tettoia in legno, numerosi murales che corrono lungo il muro di cinta.  Qui, ai piedi di una montagna sacra proibita alle donne locali, vengono accolti centinaia di bambini provenienti dalle condizioni più disperate: povertà, sfruttamento lavorativo, genitori alcolizzati. A dare man forte allo staff locale c’è pure Christine, svizzera dall’ampia chioma bionda, John, che da tre km di distanza capisci che è inglese e Kerry, una giovane volontaria di Pechino dagli occhi sporgenti. 

L’associazione ha cominciato con poco, passo dopo passo, fino a toccare la punta di 6.000 beneficiari, dunque tutte le famiglie del quartiere e poco più. “In confronto all’inizio” - dice Christine - “ora vantiamo dei bagni regolari per maschi e femmine e una mensa grande dove è possibile gustare una scodella di zuppa con carne di yak. Anche le attività formative sono aumentate, come la sartoria o l’apprendimento della lingua inglese”. Qualche ragazzino è indomabile. Sgattaiola via dall’aula, si raduna con qualche amichetto nella stanza affianco e dopo aver liberato il tappeto dai pezzi di lego comincia a lottareCombattono avvinghiandosi, tentando di ribaltare l’avversario come i colossi del Nadaam. John mi strattona invitandomi a seguirlo sul pendio erboso della montagna sacra. Aria. In cima svettano cinque Ovoo, santuari sciamanici composti da uno o più cumoli di pietre dove pellegrini e viandanti depositano doni e offerte: pupazzetti, banconote, bigliettini, corna di montone o ancora ciottoli, appoggiati uno sull’altro. Le pietre accumulate servono anche ai nomadi per segnalare i sentieri, resi invisibili dall’erba alta o dalla neve che tra non molto giungerà nella capitale. Numerose bandierine consumate dalle intemperie corrono da palo a masso. A qualche km di distanza di ergono le fabbriche della città e una fitta cappa di smog copre edifici e palazzine. John dice che d’inverno, coi riscaldamenti accessi, non si vedono neppure le gher trecento metri più sotto. “Ben il 60% delle persone a Ulan Bator e periferia vive nelle gher o per strada. Anche qui, nonostante la tranquillità, esistono i risvolti della medaglia. Ulan Bator, malgrado i pascoli e la natura selvaggia che pulsa in tutta la Mongolia, è la terza città al mondo più inquinata. Le particelle dello smog sono venti volte superiori ai limiti stabiliti dall’Organizzazione mondiale della sanità”, aggiunge l’uomo di mezza età, sciogliendosi nel vento pomeridiano. 

Un anziano barcolla, si appoggia con la spalla ad una staccionata e schianta con un sorso una boccetta di vodka. Al centro diurno fremono i preparativi per il pranzo. Due silenziosi bambini riempiono i bicchieri di thè salato, irrinunciabile specialità mongola. Seguo Boogie, anch’essa operatrice dell’associazione, durante la distribuzione di beni alimentari alle famiglie locali. Le prime provviste vengono offerte a quattro persone, di cui tre minori, residenti in una gher sporca e nera come pece, odorante di muffa e urina. C’è del carbone per terra e un cagnolino che trotterella tra pentoloni e mucchi di lana. Il padre è alcolizzato, ciondola in un angolo con la bimba di un anno sulle braccia, nuda dalla cintola in giù. Noto delle cicatrici auto lesionate sugli avambracci; profondi tagli corrono fino ai polsi del giovane uomo, come una serie di macabri braccialetti. Gli altri due figli, otto e cinque anni, guardano la TV, seduti sopra una cisterna di plastica. Boogie dichiara che finora il nucleo famigliare è sopravvissuto grazie ai soldi che il governo dona ai minori, circa dieci dollari al mese ciascuno. Una fila di giovani monaci appare oltre l’uscio della tenda. Incalzano tuniche rosse e scarponi. “I monaci bambini solitamente sono orfani oppure provengono da famiglie in gravi difficoltà. Gli adulti, i monaci buddisti intendo, si occupano di loro, svolgendo attività sostitutive ai servizi sociali” spiega Boogie indicandoli dall’antro dell’abitazione.

Incontriamo un’altra famiglia e le distanze si sgretolano. Appunto i nomi sul taccuino. Il babbo, Amgalan, lavora nella steppa come allevatore e la mamma, Uranchimeg, cuce scarpe di cuoio. Vivono in comodato l’uso, su un terreno ostile da cui potrebbero essere un giorno allontanati. La figlia maggiore, Nominerdene, indossa una giacchetta e, vergognandosi della lampo rotta se ne sta sempre con le braccia conserte, seduta sul margine del letto. È un’immagine dolce e struggente che sa di dignità. Ci offrono del pane locale, croccante e scuro. I figli piccoli, Suvderdene e Esunerdene giocano in giardino con un barattolo di latta. Di fronte a loro, la casetta dei proprietari terrieri trabocca di giocattoli, legna da ardere, taniche di benzina. Prima del buio, salutandomi, Boogie esclama: “Non basta dargli del cibo o fargli giocare, l’educazione è l’unica cosa che può tirarli fuori da queste situazioni”. 

Un nonno di passaggio mi offre un goccio di Airag, latte di mucca poco alcolico, densamente piccante. Starei fermo ore ad osservare pargoli e adulti, contemplando quegli zigomi alti e tondi simili a sassi levigati, le palpebre spesse e indurite dal freddo della steppa, ad ascoltare risate profondamente contagiose, voci raschiate, gutturali, cosi bizzarre rispetto agli idiomi europei. Dopo la bufera dell’alba spunta il sole. In Mongolia, nell’arco di 24h possono alternarsi quattro stagioni. Rapito dall’essenzialità, intuisco che i viaggi, presi alla radice, siano fatti prevalentemente di piccoli e frequenti addii, alcuni sofferti, altri meno. Distanti, le fabbriche vomitano fumo nero in cielo, confondendo per minuti il biancore innocente delle nuvole. Dalle casette circolari tutte attorno, le mamme richiamano la prole, che sbuca come leprotti dai cespugli di efedraL’umanità ha gli stessi tratti. 

Matthias Canapini

Matthias Canapini è nato nel 1992 a Fano. Viaggia a passo lento per raccontare storie con taccuino e macchina fotografica. Dal 2015 ha pubblicato "Verso Est", "Eurasia Express", "Il volto dell'altro", "Terra e dissenso" (Prospero Editore) e "Il passo dell'acero rosso" (Aras Edizioni).

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