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#4. L’educazione viva
Giovani
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La scuola ha spesso fondato la sua struttura sull’idea che i bambini siano contenitori “vuoti” da educare “riempiendoli”, riformandone l’identità e modellando l’essere umano a venire. “Pensare che l’intervento esterno sia necessariamente volto a migliorare la resa è un approccio estremamente umano”, sostiene Cristòbal Gutierréz, della Fondazione CAI, ma prosegue: “il bambino però è come un bosco”: la crescita è un processo – cellulare, mentale, emotivo – innato… occorre solo fare in modo di rendere disponibile ciò che è necessario, in primo luogo affetto, rispetto e fiducia, che si situano alla base di ogni sviluppo e apprendimento. Perché allora, spesso, si educa attraverso la minaccia, il castigo, le tensioni, dimenticandosi dell’amore? Nel processo educativo, quando non riusciamo a ottenere quello che ci viene richiesto – e quindi non riceviamo amore perché, in qualche modo, non riusciamo a corrisponderne alle aspettative con il nostro modo di essere noi stessi – cominciamo ad agire in modo per noi artificiale, ma tale da raggiungere i risultati che ci permettono di sopravvivere. Come? Condizionati dalla paura.
Un’esagerazione della scuola di oggi? Forse in parte, ma una riflessione che ci permette di soffermarci su un punto ricorrente non solo in ambito scolastico ma in molte declinazioni della società attuale: porre limiti e costruire barriere rigide e certe è in realtà un modo di manifestarsi della paura, un meccanismo di controllo e di manipolazione (basti pensare al manifesto di Watson del 1913, che fornì le basi – non solo ai regimi totalitari, ma anche agli spot mediatici – per una manipolazione di massa attraverso la paura). È innegabile che molti nostri contatti quotidiani si basino sulla paura: di cambiare, di progredire, di essere noi stessi, di amare, di rivelare ciò che siamo in fronte al mondo. Un approccio che caratterizza profondamente la vita adulta, con persone che si impegnano per un lavoro che non le appassiona, ma che permette di raggiungere una determinata posizione sociale: la società dell’autoinganno.
I bambini, però, ci mostrano spontaneamente una voglia di vivere che noi, come adulti, abbiamo perso. La prima domanda che dovremmo quindi farci come educatori, suggerisce Gabriela Obregón Gutierrez, del Colegio Piccolino Montessori, dovrebbe essere: sto prendendomi cura della voglia di vivere di questo bambino? Ci si rende allora conto che lo stimolo, per i bambini, è quasi del tutto superfluo perché la motivazione nasce spontanea lì dove loro possano scegliere e posizionarsi secondo i propri istinti, scoprendo i “talenti” propri di ognuno. “Senti la tua anima, ascolta il tuo cuore” diceva Rudolph Steiner.
Recentemente, durante un’esperienza scolastica all’interno del progetto di sensibilizzazione ed educazione della World Social Agenda, che Fondazione Fontana promuove quest’anno per suscitare la riflessione sul Secondo Obiettivo di Sviluppo del Millennio, mi è capitato di scambiare con una professoressa qualche pensiero sul senso di suddividere gli alunni per classi di età. Nel liceo musicale dove insegna la separazione per fasce d’età viene meno di fronte alle esigenze dell’orchestra, del coro, dell’armonia di gruppo, e può accadere che un ragazzo del secondo anno accompagni al pianoforte il cantante solista del quinto anno.
Si tratta di un esempio – banale? No, direi invece significativo – di come la separazione orizzontale è controproducente. Un apprendimento verticale, che permetta invece uno scambio intergenerazionale, ha indubbi vantaggi: non implica che persone della stessa età anagrafica debbano forzatamente conoscere le stesse cose, non spinge all’omogeneizzazione, propone lo stesso tipo di relazione che gli studenti hanno incontrato e incontreranno nelle loro vite (nelle quali continueranno a scambiare informazioni non solo con i coetanei, ma anche con nonni, genitori, figli, colleghi di lavoro, etc.). Un modo che, senza richiedere smisurate modifiche sistemiche o curricolari, permette allo studente di percepire – anche a livello inconscio – che ciò che rende la vita più ricca sono le differenze di cui egli è portatore rispetto agli altri e viceversa e che esse sono indispensabile a uno sviluppo olistico. Questo è uno dei tanti esempi per favorire un cammino personale di espressione, in cui l’arte è fondamentale quale diritto che permette di accedere a una formazione integrale, che valorizza le emozioni e che permette di concretizzare gli auspici ad un’educazione integrata, “cosmica”, in cui “tutto è in relazione con tutto” – proprio come sosteneva Maria Montessori.
In questa prospettiva, potenziare un ambiente ricco di opzioni in cui il bambino sia invitato a prendere decisioni – e tali decisioni vengano rispettate – fa crescere la fiducia in se stessi e favorisce l’assunzione di responsabilità. Un’educazione partecipativa che avvicina fin da bambini al concetto di cittadinanza e di partecipazione alla vita politica nel senso più autentico del termine. Sono i bambini stessi che attraverso il dialogo stabiliscono ciò di cui hanno bisogno per condividere lo spazio comunitario, lavorare in gruppo, ascoltare gli altri, ascoltare idee diverse senza usare la forza. In questo modo essi acquisiscono familiarità con il sentimento di cura per gli altri come forma di vita, riconoscendo l’importanza del vivere in una relazione e la responsabilità di ciascuno all’interno dei conflitti.
Poter esprimere le proprie preferenze non significa in quest’ottica dare spazio all’anarchia o alla confusione, significa piuttosto rendere la persona in grado di capire che è necessario poter e saper scegliere. Non è per nulla ragionevole insegnare la libertà in teoria e poi aspettarsi che, fuori dalla scuola, venga automaticamente messa in pratica. I bambini devono essere liberi dentro la scuola, liberi di scegliere ciò che desiderano imparare, liberi di imparare a essere autonomi e ad avere esperienza di ciò che significa sentirsi rispettati nella propria autonomia.
Purtroppo spesso la forma predominante di educazione è quella che suggerisce – quando non impone – all’altro cosa fare e come farlo, e questo implica che i bambini abbiano poca esperienza di cosa significhi scegliere e farlo per conto proprio. Quante volte ci è capitato di chiedere “cosa vorresti fare?” e di sentirsi rispondere “non so”?. A scuola i bambini sono abituati ad avere una serie di indicazioni che continuamente segnalano loro cosa si deve fare. Non si tratta affatto di immaginare un diverso bilanciamento dell’autorità tra docente e studente, bensì di adottare una forma di proposta e risposta che instaura nell’alunno la sensazione di cosa significhi essere l’autorità della propria esistenza.
Pensiamo ad esempio all’esperienza della valutazione: i voti sono soggettivi e imperfetti, perché non esiste un docente che valuti in maniera uguale a un altro. Ma quando è il bambino a valutare come si sente rispetto al lavoro fatto? È lui che riconosce il suo progresso nel processo di apprendimento e che può scegliere quando è pronto per passare al livello successivo. Non si stabilisce più dunque un migliore o un peggiore, ma un grado di avanzamento nell’apprendimento che aiuta la misurazione della maturità, del livello di indipendenza e di autonomia. Una scuola che in questa forma coinvolge in maniera molto più significativa la comunità nella sua interezza. È quello che spesso accade nelle scuole rurali o comunitarie, in cui convivono bambini di diverse età e in cui l’apprendimento è potenziato nelle esperienze e nei valori umani, sia per i bambini che per l’insegnante. Sono scuole lontane e marginali rispetto alle realtà urbane, dove però la formazione appare omnicomprensiva e più completa rispetto ai contesti cittadini. Luoghi di crescita e formazione in cui si impara il lavoro di squadra, obiettivo molto più vicino a quello di un’educazione autentica che sviluppi capacità umane e relazionali.
Come suggerisce il titolo del documentario che ci ha portato a ripercorrere i molteplici sensi e sviluppi dell’educazione che conosciamo e di quella che desideriamo, è probabilmente vero allora che l’educazione la proibiamo tutti, ogni volta che ci voltiamo dall’altro lato anziché ascoltare, ogni volta che scegliamo la mèta invece del tragitto, ogni volta che lasciamo tutto uguale invece di sperimentare qualcosa di diverso. Fare in modo che le persone siano felici è un’idea rivoluzionaria, e non è certo una novità. Vale però la pena ripeterlo, perché quando una persona sta bene con se stessa, è in pace col proprio passato e non ha nulla da difendere o dimostrare per poter esprimere e costruire la propria identità, allora è giunto il momento in cui può volgersi agli altri e accompagnarli verso una felicità propria. L’auspicio è che, assieme agli insegnanti, siano le madri e i padri a tornare a essere educatori nel senso più profondo, per accompagnare i bambini verso l’individuazione di ciò che desiderano o non desiderano, perché si sentano amati e imparino ad amare gli altri. Essi prenderanno così parte a un processo di apprendimento continuo e di interscambio tra l’individuo, i genitori, le persone che lo circondano e la comunità. Una educazione viva.
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