Dagli slum di Mumbai alla Scala di Milano

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Foto: Unsplash.com

Ci vuole un po' di visionarietà per vedere in un mucchio di stracci, anche se colorati, di sete preziose e fantasiosi, un progetto di moda etica, sostenibile ed ecologica. Un'occasione di recupero di materiali che andrebbero buttati ed empowerment per le donne di Mumbai.

L'idea è di Stefano Funari, imprenditore sociale che, da Zurigo, nel 2011 si è trasferito nella metropoli indiana e dopo aver lavorato con diverse ONG occupandosi soprattutto di bambini orfani, nel 2016 ha fondato “I was a sari”.

Dare una seconda vita agli oggetti, in questo caso vecchie sari, i sei metri per uno di stoffa che costituiscono il vestito tradizionale femminile in India, è un modo per dare una seconda opportunità alle donne che vivono in condizioni disagiate.

“L'idea è nata quasi per caso – racconta Stefano Funari – mentre passeggiavo nel mercato dell'usato Chor Bazaar. Ho visto pile di sari e mi sono chiesto come riutilizzarle, ho sempre amato quelle stampe e quei disegni. All'inizio è stata una grande sfida: è tutto a sfavore e le persone che incominciano a lavorare non hanno idea di cosa sia la qualità e il rispetto delle scadenze. È un po' come ballare il samba: un passo avanti, due dietro, uno di lato, e a volte ti chiedi perché sei sempre nello stesso punto. Poi, con pazienza e fiducia, formazione e attenzione le cose cambiano”.

Il progetto oggi conta 20 dipendenti e 170 artigiane. L’azienda proprietaria del brand “I was a Sari”, 2nd Innings Handicrafts, si occupa del design dei prodotti, acquista i materiali, gestisce le vendite, il marketing, la logistica, le spedizioni e il controllo qualità. La produzione è affidata a due ONG indiane: Community Outreach Programme (CORP) e Animedh Charitable Trust (ACT) che organizzano corsi di formazione in sartoria e progetti di generazione di reddito in sei centri distribuiti in tutta Greater Mumbai. 

Uno dei grandi freni all'occupazione femminile – continua Funari – è che la mobilità non è accettata socialmente. Il lavoro deve essere a casa o nelle immediate vicinanze, per questo abbiamo unità produttive piccole dislocate in più centri. Le artigiane sono pagate prima del controllo qualità che è molto più coinvolgente”.

Il progetto si fonda sui tre pilastri della sostenibilità: impatto sociale, ambientale e finanziario. “Il lavoro – racconta Funari - come emancipazione sociale ed empowerment femminile; il rispetto per l'ambiente perché utilizziamo materiali di recupero, riciclati e sempre più green anche per imballaggi ed etichette; l'aspetto finanziario perché siamo un impresa sociale che prevede il reinvestimento totale dei profitti dopo che le risorse sono state pagate. In pratica, possiamo stare sul mercato perché ce lo guadagniamo”.

Dal 2016 l'azienda è cresciuta ogni anno del 100%. All'inizio produceva solo accessori, poi capi molto semplici, poi sono arrivate le collaborazioni importanti come quella con Gucci Equilibrium, il piano sostenibile per l'economia circolare. “Da lì – racconta Funari - abbiamo iniziato a lavorare sui ricami, normalmente in India affidati agli uomini. Nel 2019 abbiamo vinto il premio Circular Design Challenge, il primo premio indiano per la moda sostenibile promosso dalle Nazioni Unite. E a settembre il premioinnovazione sociale, moda sostenibile Green carpet award consegnato al teatro alla Scala di Milano. Immaginate le nostre artigiane dagli slum alla Scala”. 

Con il lockdown l'attività è ferma e sul futuro è difficile fare previsioni. “Abbiamo continuato a pagare gli stipendi – spiega Funari - con una riduzione del 20% perché sono questi i momenti in cui essere coerenti. Ora è tutto complicato e ci sono molte incognite sulla domanda perché ci sarà una contrazione dovuta alla disoccupazione ma credo che ci saranno anche molti più consumatori consapevoli”.

Per sostenere il progetto “I was a sari” in questi periodo si può fare una donazione qui

Francesca Rosso

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