La democrazia della piazza, quando le proteste fanno la storia

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In questi tempi di crisi economica e sociale (che poi diventa quasi automaticamente politica) arrivano da tutto il mondo notizie di manifestazioni di piazza, più o meno violente e più o meno motivate, di scontri e di sommosse popolari che a volte mettono a repentaglio il potere costituito. Le reazioni a questo tipo di avvenimenti sono molteplici ma possono ridursi a due grandi atteggiamenti fondamentali: il primo di chi sempre e comunque si schiera con la strada sostenendo che, in fin dei conti, quanti sono al comando dovranno sempre farsi perdonare qualcosa, agendo per doppi fini, progettando svolte autoritarie o, al minimo, non tenendo in dovuta considerazione le istanze dei cittadini. Dall’altra incontriamo la propensione ad appoggiare l’ordine garantito dalla forza pubblica, pensando che il metodo migliore per cambiare le cose non sia la protesta bensì la capacità di affrontare i problemi con la ragione e la politica. Chi la pensa così insisterà sulle vetrine rotte, sui singoli episodi di vandalismo, sulle divisioni della piazza, sulle irrealizzabili proposte che vengono dal basso. La repressione, gli arresti indiscriminati e le incapacità dei governi di gestire la situazione vengono messi invece in secondo piano.

Difficile trovare una via media che distingua istanze e contesti diversi. L’Italia del G8 di Genova insegna. Ma tutto il mondo è paese: in questi giorni, nel silenzio generale, anche la Bulgaria è in fermento, con manifestazioni giudicate in maniera opposta dai punti di vista di maggioranza e opposizione. Ci siamo ormai abituati alle proteste dei greci, mentre le rivolte arabe rischiano di essere completamente travolte dalla tragedia siriana. Oggi invece fanno notizia due paesi lontanissimi tra di loro, la Turchia e il Brasile, accomunati forse soltanto da una crescita della loro influenza a livello mondiale. Le manifestazioni che hanno interessato grandi e popolose città dei due paesi sono nate in seguito a proteste per la trasformazione di un parco pubblico in centro commerciale (a Istanbul) e per l’aumento del costo dei biglietti dell’autobus (a San Paolo).

Queste piccole scintille fanno scaturire subito incendi più vasti che di solito sono alimentati da episodi cruenti di scontri con vittime, dal circuito mediatico (che vede sempre di più protagonisti i social network) e appunto all’accavallarsi di istanze di vario tipo. Così in Turchia si protesta contro la presunta deriva islamista del governo Erdogan, mentre in Brasile dilaga lo scontento contro la spesa per i Mondiali di calcio previsti per il prossimo anno: la discesa in campo di Pelè non è sufficiente per fermare cittadini stufi di essere distolti dai veri problemi con manifestazioni di divertimento per ricchi.

Alla fine è il tempo a spegnere le fiamme: i governi cedono qualcosa e le piazze si raffreddano. È molto raro invece che queste sommosse riescano a sovvertire l’ordine istituzionale stabilito, trasformandosi così in vere e proprie rivoluzioni.

Se pensiamo ai due casi citati possiamo affermare che questi paesi stanno affrontando una difficile prova di democrazia. Sappiamo quanto sia impervio definire, teoricamente ed empiricamente, che cosa sia democrazia: un misto di diritti, doveri, leggi, procedure, valori, consuetudini, istituzioni che dovrebbero tutte convergere nella direzione di uno Stato che gestisce la sua autorità e le sue funzioni cercando di coinvolgere il più possibile i cittadini. Negli ultimi anni abbiamo capito come le elezioni siano un elemento necessario ma non sufficiente per parlare di democrazia.

Qualcuno propone una definizione più artigianale. La differenza tra un regime autoritario o dittatoriale e uno democratico si sperimenta nella libertà di espressione, dal modo in cui viene trattato chi “passeggia sulla piazza principale della capitale con un cartello che critica il governo in carica”. Se questo manifestante può tranquillamente svolgere questa forma di protesta il paese in questione è democratico, se invece viene intimorito, bloccato, arrestato vuol dire che bisogna fare molta attenzione alla china dispotica in cui quello Stato si è avviato. Con questo semplice apologo si può avere immediatamente un’idea sulla situazione di paesi come la Russia, oppure dell’Africa come l’Uganda: contesti diversissimi, forse incomparabili, ma che, a guardare bene, testimoniano come il mondo sia davvero unificato anche da queste forme di protesta.

Il problema, di solito, viene dopo, quando la protesta deve diventare proposta. Se queste manifestazioni non portano a nulla. Se gli indignados del pianeta vanno in vacanza. Se vince la repressione. Allora le braci sembrano soffocare. Poi ritornano. Forse anche in questo modo però si fa la storia.

Piergiorgio Cattani

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