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Quando gli studenti dicono di sentirsi chiusi in gabbia
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Foto: Vanessa Werder da Unsplash.com
“Noi qui siamo dei nomi!” esclama con gioia uno degli studenti della professoressa Silvia Larcheri. Non è uno studente come quelli che affollano l’immaginario collettivo. Innanzitutto perché la sua frequenza scolastica avviene da adulto, in secondo luogo perché il “qui” è un carcere. In queste settimane di riflettori accesi sulle condizioni delle carceri italiane con il caso di Alfredo Cospito e il regime del 41bis, Unimondo ha raggiunto telefonicamente il personale docente del Liceo “Antonio Rosmini” di Trento, coordinato da Silvia Larcheri, che cura la didattica all’interno della Casa circondariale del capoluogo trentino, ovvero un carcere che ospita imputati in attesa di giudizio o condannati a pene non superiori a 5 anni.
È il dirigente del Liceo, Stefano Kirchner, a illustrare la complessità dei percorsi formativi attivati, volti a soddisfare bisogni educativi estremamente differenziati: da esigenze di alfabetizzazione di base, soprattutto per detenuti stranieri che non hanno alcuna esperienza scolastica alle spalle, a percorsi di scuola primaria, secondaria e al biennio delle superiori, a seconda delle competenze rilevate, fino ad arrivare anche alla qualifica professionale mediante il conseguimento del triennio dell’Istituto alberghiero. Aumenta la complessità dell’intervento educativo il frequente turn-over degli studenti, determinato dalla durata dei periodi di detenzione. Circa 200 iscritti ai corsi scolastici sui 350 detenuti della Casa circondariale. Molti. Così come sono molti i gruppi in cui gli studenti sono ripartiti per esigenze didattiche, in base alle loro competenze e quindi al percorso formativo in atto. Inoltre anche nelle ore scolastiche permane la separazione tra uomini e donne (queste ultime una minoranza), così come tra detenuti comuni e detenuti “protetti” (ossia chi si è macchiato di reati sessuali, collaboratori di giustizia, ex appartenenti alle forze dell’ordine, etc.): un obbligo che impone una necessaria moltiplicazione delle lezioni e dei docenti attivi all’interno della struttura carceraria.
Libera la scelta dei docenti di insegnare all’interno delle carceri. Libera la scelta dei detenuti di iscriversi alla frequenza, così come di partecipare con profitto. La scuola all’interno di una struttura carceraria diventa così un avamposto di libera scelta, soprattutto per coloro ai quali la libertà è stata strettamente limitata.
Quali sono le ragioni che fanno propendere un detenuto per l’iscrizione? “Senza dubbio la possibilità di occupare in maniera diversa un tempo altrimenti vuoto e sospeso ma anche di studiare e relazionarsi con persone provenienti dall’esterno” spiega la professoressa Larcheri. “Questo confronto lenisce il senso di solitudine e alimenta naturalmente una riflessione su ciò che si è lasciato fuori e una presa di coscienza maggiore del detenuto per il reato commesso e per le sue vittime. Se invece si vive la pena dialogando solo con se stessi e con le altre persone detenute si finisce spesso per vedersi vittime del sistema, perdendo quasi la percezione degli errori commessi.” Una delle motivazioni più forti è proprio dimenticare per alcune ore di essere in carcere, proiettarsi fuori dalla realtà vissuta, cercando attraverso il viaggio educativo di comprendere le proprie responsabilità rispetto al passato ma anche di immaginare e desiderare un nuovo futuro nella legalità. Quasi 30 anni fa il film “Le ali della libertà” ci ha insegnato che “La paura rende prigioniero, la speranza può renderti libero”. In questo caso la speranza è data dall’acquisizione di nuove competenze e abilità, di attestati di frequenza, di titoli di studio. Speranza di riscatto da una parte, saldando quindi il proprio debito con la giustizia e con la società civile. Speranza di riabilitazione al contempo, come recita l’articolo 27 della Costituzione italiana secondo il quale “Le pene (…) devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Quali sono invece le motivazioni che spingono un docente a insegnare in un contesto di sofferenza quale quello carcerario? “Offrire un’opportunità formativa ed educativa in una dimensione di relazione che aiuti a riflettere e a colmare i vuoti di cultura spesso riempiti con modelli sbagliati. È una esperienza molto impegnativa che ci porta quotidianamente a contatto con vissuti di grande sofferenza”. Il team di docenti che lavora in carcere ha attivato da anni un percorso mirato e continuo di autoformazione, con esperti in ambito pedagogico-educativo, psicologico e giuridico, con l’obiettivo di acquisire strumenti e una maggiore consapevolezza del proprio ruolo in un contesto di lavoro così complesso. Molto spesso tali formazioni possono non bastare e, per questo, è prassi che un docente non sia in servizio esclusivo solo presso la struttura detentiva. Si tenta così, con la consapevolezza – e l’orgoglio - di costruire un piano rieducativo per il detenuto, nel rispetto di una formula costituzionale che purtroppo non tutte le strutture carcerarie italiane possono vantare.
Miriam Rossi

Miriam Rossi (Viterbo, 1981). Dottoressa di ricerca in Storia delle Relazioni e delle Organizzazioni Internazionali, è esperta di diritti umani, ONU e politica internazionale. Dopo 10 anni nel mondo della ricerca e altrettanti nel settore della cooperazione internazionale (e aver imparato a fare formazione, progettazione e comunicazione), attualmente opera all'interno dell'Università degli studi di Trento per il più ampio trasferimento della conoscenza e del sapere scientifico.