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Ripensare la detenzione
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Immagine di Zero Calcare per Alfredo Cospito
Di quel che ha rappresentato per la giustizia e il sistema d’informazione in Italia il “caso” Valpreda nessuno si ricorda più, pazienza, ma “la pista anarchica”, con il passare dei decenni diventata anarco-insurrezionalista, è rimasta un fantasma dell’opera poliziesco-investigativa buono per qualsiasi stagione. L’immaginario che evoca in questi giorni il clamore degli “attacchi” alle sedi diplomatiche italiane che “si dice” rivendichino, con metodi solo in alcuni casi inaccettabili e violenti (non può esserlo una scritta sui muri), la difesa della vita dell’anarchico Alfredo Cospito ne è l’ennesima dimostrazione. Cospito, condannato per il gravissimo ferimento al polpaccio di una persona e un altro potenziale grave reato, sta conducendo una protesta nonviolenta estrema – oltre 100 giorni di sciopero della fame – contro un regime carcerario disumano per chiunque, istituito mezzo secolo fa (1975) in contrasto con la Costituzione e da più fonti molto autorevoli definito come tortura. È lo stesso a cui, con diverse successive aggiunte, si è poi deciso di sottoporre le persone condannate per gravi crimini di mafia. La decisione di sottoporvi Messina Denaro, ammalato di cancro in fase terminale, ha scatenato oltre a indecenti applausi una discussione accesa e un surreale confronto con la vicenda, la condizione e la protesta di Cospito. La confusione mediatica è massima e la situazione – soprattutto per chi vive nelle carceri italiane, dove si muore ogni giorno e il tasso di sovraffollamento raggiunge anche il 200 per cento – non è davvero eccellente. Era e resta vergognosa. L’articolo di Giuseppe Giannini ne mette a modo suo in evidenza alcune delle ragioni essenziali. Francamente non possiamo sperare che la nefasta composizione dell’attuale parlamento sia in grado di produrre alcuna modifica nella direzione del serio ripensamento dell’istituto di detenzione auspicato, possiamo però ricordare che, come tutti dovrebbero sapere, le carceri sono uno dei principali indicatori dello stato di salute – e di logoramento – di una democrazia: per comodità di analisi, si pensi pure all’Iran o a Israele. Quel che accade lì dentro, dietro le sbarre, parla e dipende da quel che si vive e si è costruito fuori.
“La legge è uguale per tutti”, recita la scritta più famosa posta nelle aule dei tribunali, ma quando la giustizia deve decidere su fatti di sangue, commessi singolarmente o tramite organizzazioni criminali, viene a scontrarsi spesso con un’opinione pubblica scossa, già preparata dai mezzi dell’informazione ad un certo tipo di “sentire comune”.
Sono questioni delicate che implicano inevitabilmente un coinvolgimento emotivo, certo, ma compito degli operatori del diritto, al di là della sottoposizione alla legge, è non farsi coinvolgere, conservare un certo distacco dai fatti e fare giustizia. Allora dovremmo preliminarmente chiederci cosa si intende per giustizia, e quali diritti intendiamo tutelare.
Quando i temi sono scottanti viene a delinearsi uno scontro tra visioni contrapposte, ma il giudice dovrebbe essere terzo, e nella valutazione ed interpretazione dei fatti criminosi deve tirare in ballo non solo le fattispecie contemplate dai codici, ma anche i principi costituzionali ed internazionali.
Da quando si è insediato il nuovo governo, si è tornati a parlare con più insistenza del cosiddetto ergastolo ostativo. Sulla sua idoneità e corretta applicazione già vi son state pronunce da parte della CEDU e della Corte Costituzionale. Lo scopo, inevaso, è stato quello di richiamare il Parlamento a prendere una posizione chiara su una sorta di aporia giuridica.
Il clamore suscitato dall’arresto del boss Messina Denaro ha rinvigorito lo scontro tra finti garantisti, che scrivono e parlano di aspetti umani ma poi sono per “buttare via la chiave”, e giustizialisti, i quali sapendo bene di toccare corde sensibili dimenticano la finalità delle pene. Le sanzioni comminate dovrebbero servire a punire a seconda della gravità dei reati, ma non si dovrebbero ispirare solo all’aspetto afflittivo. Compito del diritto è quello di cercare di creare un nuovo rapporto con l’autore del reato, attraverso la sua rieducazione, cercandone il reinserimento sociale.
Eppure se i reati sono molto gravi tutto viene messo in discussione. E ci sono pure tanti cristiani che, di fronte alla violenza, dimenticano il perdono.
Insomma, sono questioni spinose, che quando si tratta di mafia, propendono unicamente per il carcere duro, di cui all’ art. 41 – bis ord. pen. Infliggere una pena esemplare non conduce necessariamente a sfiancare i criminali. Si cerca di risalire alla verità premiando chi fa un passo indietro, decidendo di intraprendere un percorso diverso rispetto al passato di sangue. Tuttavia si sottovalutano l’ambiguità e il ruolo dei cosiddetti collaboratori di giustizia, i quali sono consapevoli degli effetti che avranno le loro dichiarazioni, e il loro pentimento diventa uno scambio contrattato con lo Stato.
Cosi, si parla tanto di carcere duro ed ergastolo, sottacendo il fatto che in tal modo si distrugge ogni possibile legame futuro con il reo. Lo Stato attraverso il carcere diventa il proprietario della vita di chi si è macchiato di delitti verso l’esistenza altrui, una sorta di vendetta contro il nemico. Non solo, infatti, ad essere tutelate sono anche e soprattutto la proprietà e il patrimonio, le quali vanno assumendo una dimensione privilegiata e classista, con fattispecie delittuose, pensiamo al fantomatico reato di devastazione e saccheggio, ma anche a certe emblematiche sentenze, per cui, in alcuni casi si hanno pene maggiori rispetto a chi offende la libertà personale altrui, quasi a voler riscrivere la formula “La legge è eguale per tutti i potenti”.
Tornando al fine pena mai, – l’ergastolo ostativo – esso dimostra come lo Stato anche se ha abolito la pena di morte, la fa rientrare in forma soft, legittimandola con la decisione di condannare alla morte dietro alle sbarre. Alla violenza del reo si sotituisce così la violenza dello Stato.
L’ergastolo ostativo è accomunato ai reati commessi per diverse finalità. Ad esempio, senza distinguere tra chi vuole attentare all’ordine generalmente riconosciuto come costituvo e alla sicurezza – pensiamo ai reati di criminalità organizzata, ma anche alle stragi o agli attentati opera di apparati e servizi deviati o di forze golpiste e reazionarie – rispetto a chi sia pur con la violenza – i delitti contro obiettivi mirati ad opera dell’eversione e del terrorismo – vuole far emergere il dispotismo del potere legale.
Il caso Alfredo Cospito fino a qualche settimana fa non faceva notizia, niente a che vedere, ad esempio, con quello di Messina Denaro, ma dimostrava tutta la barbarie di uno Stato che ancora una volta attraverso le misure repressive afferma quali interessi ideologici intende tutelare.
Pare un’assurda forzatura giuridica pensare ad una pena dura, la stessa, per chi come boss si è reso colpevole di pluriomicidi, ed è individuato come mandante per altri e fatti di strage, e per chi, come Cospito, è colpevole di aver sparato a un polpaccio, ferendolo, a Roberto Adinolfi, amministratore delegato di Ansaldo Nucleare, e di aver messo due ordigni a basso potenziale, inesplosi, nei pressi di una scuola dei carabinieri di Fossano. Non sta in piedi, pur condannado senza esitazioni ogni violenza armata sulle persone, l’accusa di tentata strage...