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Quanto era bella la mia casa!
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Foto: M. Canapini ®
A quattro chilometri dalla frontiera greca gli altopiani si appiattiscono. Un cartello stradale indica la via: Polykastro. So che in città Open Cultural Centre (un’organizzazione senza scopo di lucro attiva in Spagna e in Grecia) dà supporto alle comunità di migranti e rifugiati in transito. “I campi governativi in Grecia sono militarmente controllati, dunque ogni giorno molti amici e conoscenti passano a trovarci. Qui si rilassano, si sentono di nuovo persone, respirano. Noleggiamo biciclette e pratichiamo sport insieme. Qualche migrante, in attesa dei documenti, si è reso disponibile per dare una mano, tradurre, accogliere”. Maria è la prima volontaria che incontro, parla al cellulare con toni entusiasti. Polykastro, frazione del comune di Paionia, sussiste nell’egemonia dei contrasti, nell’amalgamarsi delle diversità, caleidoscopio per incontri onirici. Di Hussein, diciotto anni, ancor prima degli occhi verde smeraldo, noto il braccialetto di stoffa cucito coi colori adottati dall’Esercito Siriano Libero: verde, bianco, nero, con tre stelle rosse nella fascia centrale. “Arrivo dal quartiere Bustan al-Diwan, nel cuore della vecchia Homs. La mia città è attualmente sotto il controllo di Bashar al-Assad, sebbene vanti il titolo di capitale della rivoluzione. Nella primavera del 2011 a Homs si svolsero le più massicce manifestazioni contro il governo, con migliaia e migliaia di persone in strada. Scoppiarono scontri pesanti tra l’Esercito Regolare e le milizie dell’Esercito Libero Siriano e di Al Nusra. Poi arrivò un assedio durato anni. Fino al 2012 la zona era ancora vivibile, ma esplodevano già le prime bombe. Una delle tante ha colpito la mia casa… Quanto era bella la mia casa! Siamo scappati in Giordania, nel campo profughi di Zaatari, prima di raggiungere in aereo la Turchia e successivamente la Grecia. Ciò accadeva circa dieci mesi fa. Il nostro quartiere ha sempre avuto tensioni con l’apparato dittatoriale, ancor prima della guerra. Mio padre, da sempre nell’opposizione, è stato ucciso per questo motivo nel 2007. Siamo cresciuti in un clima di terrore, dove si temeva di criticare Assad anche dentro le mura domestiche. Tutti diffidavano di tutti. Mi domando che fine abbia fatto la rivoluzione… Credo che abbia totalmente fallito, la dittatura è troppo forte e radicata. Quando hanno arrestato mio fratello, durante le manifestazioni, era passata la voce che Abu Bakr fosse morto in carcere. Dopo sette mesi abbiamo ricevuto una telefonata da nostro zio: mio fratello era vivo e ora è qui, con mia madre e mia sorella. Guarda questo filmato girato nel 2012 da Al-Jazeera, sono io con mia madre. Le persone che gridano stanno chiedendo ai volontari della Mezzaluna Rossa più latte per i bambini. Nel febbraio di quell’anno le madri erano disperate: non c’era latte in polvere manco a rubarlo. Io ho smesso di andare a scuola quando è arrivata la guerra. Ricordo che Aleppo, Homs, Daara, ospitavano palazzi e residenze alte sette piani. Ora ne rimane uno, di piani. Città fantasma, quasi completamente rase al suolo”. Incuriosito dalle chiacchiere, Ibrahim, detto Ibo, è desideroso di condividere il proprio vissuto. Sprofondiamo sui gradini in marmo, il paesello sembra oziare. “Nel 2011 sono scappato da Hama prima che esplodesse la guerra. Mi sono bastate le avvisaglie, i primi tafferugli per capire l’aria che stava tirando. Abitavo nel quartiere di Al-Karameh, di fronte la moschea Sheikh Saeed Al-Jabi.Ho trascorso quattro anni in Libano prima di raggiungere Edirne. La repressione da parte delle autorità siriane ha costretto, già nel 2013, oltre due milioni di persone ad abbandonare le proprie case e cercare rifugio nei paesi limitrofi. Il Libano è diventato così il primo paese della regione ad accogliere più di ottocentomila rifugiati. Non sono aggiornato, ma credo che ormai i numeri siano triplicati… Sono diretto in Norvegia, a Bergen precisamente, sebbene abbia un fratello che lavora come architetto in Germania. Svolgendo volontariato con l’associazione norvegese Drop In The Ocean all’interno del campo di Nea Kavala ho imparato la lingua, dunque sono in parte facilitato. Sarei già potuto partire poiché due settimane fa un valido contatto mi ha offerto un passaggio illegale dalle coste greche all’Italia. Ho soldi sufficienti, ma non ho accettato. So a cosa si va incontro in mare e mettendoti nelle mani dei trafficanti rischi botte, furti, ritorsioni. Non me la sento”. Ogni individuo è frutto di una sfumatura pressoché infinita di episodi.
Abdu Allah, 20 anni, capelli ricci legati a chignon, tra una settimana riceverà il passaporto e volerà in Belgio. È preoccupato del divario linguistico che lo attende. Sforzandosi e acchiappando parole, si esprime in un inglese sufficiente per comprendersi. “Vivo da cinque mesi con una famiglia greca; il coordinatore educativo del campo profughi mi ha accolto in casa. È lì che ho imparato il greco, anche se per qualche mese ho frequentato una scuola a Kilkis. Era troppo distante, così ho rinunciato. In Siria è tutto finito, il nostro Paese è in mano ad Assad e Putin. Mi sono beccato quattro anni di guerra per niente. Vivevo a Binnish, vicino Idlib, ma con l’inizio del conflitto l’Esercito Governativo ha cominciato a reclutare centinaia di ragazzi. Più delle metà ha disertato, abbandonando il paese. Non ci penso neanche a sparare contro il mio popolo! Tutta la mia famiglia vive ancora a Binnish, stanno tutti bene ma non possono andarsene, il confine turco è blindato e i militari di Erdogan sparano a vista. In famiglia avevamo soldi sufficienti per far partire solo uno di noi. È toccato a me, essendo il primogenito”. Il taccuino è irrorato di numeri telefonici, facce buffe, nomi arabi, mappe abbozzate. I denti di Youssef, rovinati dal tabacco, illogicamente rendono ancora più difficile la comprensione di un ottimo inglese, tagliato però di netto nella parte finale dei vocaboli. Le lettere naufragano tra lingua e labbra. “Lavoravo in un celebre negozio di vestiti con vista sul fiume Nilo. Non era lontano dalla rigogliosa isola di Gezira, la torre del Cairo, capitale d’Egitto. Un bel salto di qualità per me, nato e cresciuto nei bassifondi della città. Come studente a diciotto anni ho partecipato alla Rivoluzione, nota anche con il nome di Rivoluzione del Nilo. Tutto è cominciato il 25 gennaio 2011. Il vasto movimento di protesta di cui facevo parte chiedeva maggiori diritti, giustizia, lavoro, riforme costituzionali, la caduta del trentennale regime del presidente Hosni Mubarak. Inizialmente abbiamo manifestato in maniera pacifica, facendo sentire la nostra voce tramite la disobbedienza civile, le contestazioni pubbliche, lievi insurrezioni. Il fenomeno ha preso poi un’altra piega, sfociando in aspri scontri che hanno provocato numerose vittime tra manifestanti, poliziotti, giornalisti, militari. I vecchi del Paese ci hanno tradito, scagliandoci addosso cecchini, barricate, manganelli. L’epicentro della protesta, piazza Tahrir, nelle giornate del 2 e 3 febbraio è divenuto luogo di intenso conflitto, con tanto di sassaiole, lanci di oggetti e raffiche di armi da fuoco. L’11 febbraio abbiamo festeggiato le dimissioni di Mubarak senza sapere che il peggio, forse, sarebbe arrivato circa due anni dopo”. L’uscita di scena del presidente Mubarak lascia il potere politico sotto il controllo del Consiglio supremo delle forze armate, composto da diciotto militari e presieduto dal maresciallo Moḥammed Ṭanṭāwī. Ai militari viene demandato il compito di traghettare il Paese verso la democrazia. Una parola sciapa che fa ridere di gusto Youssef. “Dopo vari capovolgimenti ricominciano i disordini nel novembre 2012, questa volta per chiedere la destituzione del presidente e leader dei Fratelli Musulmani Mohamed Morsi. Per farlo abbiamo raccolto oltre ventidue milioni di firme, tentando così di ottenere elezioni anticipate. Il 3 luglio 2013, di fronte al movimento massiccio di protesta, Morsi viene rimosso dalla carica da un colpo di Stato messo in atto dal comandante delle Forze Armate Egiziane, il generale Abdel Al Sisi. Sembrava che qualcosa stesse finalmente cambiando e invece tutto stava crollando. Il nuovo governo in carica dava la caccia a tutti coloro che avevano partecipato alle proteste: studenti, attivisti politici, simpatizzanti. Nessuno era più al sicuro, retata dopo retata mi hanno sbattuto in carcere sei mesi… Puoi immaginare: ho perso il lavoro, gli studi, gli affetti. Appena scarcerato sono scappato in Turchia con una barca, tagliando in due il Mediterraneo, sfiorando l’isola di Cipro. Ho trascorso svariati mesi sull’isola di Samos, prima che rendessero i campi veri e propri ghetti. Ho tentato di fare volontariato per non perdere le relazioni e tenere attiva la mente e il fisico, ma appena ho compreso che, tutto sommato, da certi luoghi non c’è via di fuga, ho ripreso le mansioni che facevo da bambino al Cairo: spaccio, piccole rapine, favori. Soldi sporchi, ma guadagnati da me stesso, senza dipendere da nessuno. Ad Atene ho tastato la vita di strada, perdendo la carta d’identità ho dovuto sorbirmi tutta la trafila burocratica da capo. Nell’attesa, vengo qui per rilassarmi ed evadere dalle quattro mura di Nevala Camp”. Atu non ha chiesto l’asilo politico ma scappa da un conflitto armato. Per sei mesi può vivere dentro al campo profughi e nessuno sa in base a quale logica la Grecia accoglie o scaccia persone in transito. Di fatto il paese ha sospeso l’ordine di rimpatrio, ma non offre protezione autentica. Ha sospeso temporaneamente il regolamento di Dublino 2, ma alimenta quotidianamente un’abitudine che muta in Legge, gonfiando un sistema folle, illogico. L’unico modo per sopravvivere è accettare di farsi portare in uno dei campi governativi, ma le persone non vengono informate sulle procedure di ricollocazione; le persone non sanno cosa sta avvenendo effettivamente sulla loro pelle. Per i profughi non esiste alcuna via legale per entrare in Europa: è così che funziona il sistema. Il sistema critica quelli che provano a intrufolarsi, ma lo stesso sistema non invita a fare la coda, a prendere il numero, a rispettare i tempi logistici: il sistema stesso spinge affinché profughi e migranti si intrufolino furtivamente in Europa e altrove. Il sistema funziona perché mente così spudoratamente che tutto sembra vero. Tutto va come non dovrebbe andare.
È il turno di Amir, un iraniano gentile e curioso, con la fisionomia di un bellunese doc: “Noi iraniani siamo buoni e ospitali. Prima di Khomeini, quarant’anni fa, Teheran era come New York. Un pugno di fanatici stupidi ha rovinato tutto, ma il popolo è rimasto aperto, limpido, giusto, sono i governi a essere sbagliati. Noi sappiamo tanto di voi italiani: Celentano, la torre di Pisa, Sophia Loren, la pizza, il Colosseo, Francesco Totti. Voi cosa conoscete dell’Iran? Arriva in Europa un’immagine troppo avulsa, contorta, stereotipata, come l’impiccagione pubblica in piazza. È vero, accade, ma non siamo fatti solo di quello”. Chiedo seriamente ad Amir, per via del suo aspetto, per quale motivo non prova a prendere un aereo, o al limite un traghetto. “Tutti mi dicono di superare il confine a piedi, con questa faccia che mi ritrovo non dovrei avere problemi. Io voglio aspettare i documenti, però, voglio restare nella legalità anche se i tempi sono lunghissimi. Mi rendo conto che l’atmosfera del campo può solo peggiorare le cose: tanti diventano pazzi, senza alcool né droghe il tempo sembra non passare mai. Ci sono giorni che romperei tutto ciò che mi passa sotto al naso, ma mi trattengo. Aspetterò, visiterò l’Italia e dopo cinque anni richiederò un passaporto per viaggiare l’Europa da uomo libero”.
Matthias Canapini

Matthias Canapini è nato nel 1992 a Fano. Viaggia a passo lento per raccontare storie con taccuino e macchina fotografica. Dal 2015 ha pubblicato "Verso Est", "Eurasia Express", "Il volto dell'altro", "Terra e dissenso" (Prospero Editore) e "Il passo dell'acero rosso" (Aras Edizioni).