Lampedusa: l’inizio e la fine del nostro limite

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I conflitti che scoppiano o riprendono vita ogni giorno in giro per il mondo nascono, il più delle volte, a ridosso di confini (internazionali, interregionali, interculturali, interlinguistici, interreligiosi). Non è un caso, per esempio, che sul confine orientale ucraino si stia consumando uno scontro durissimo per stabilire fin dove può estendersi il dominio russo e da dove invece cominci l’Europa delle diplomazie, oppure che il Califfato dia prove di forza – con orrore – di quanto sia potente e in grado di estendere la propria egemonia.

Si è soliti immaginare il confine come una linea unica, semplice, chiara e indiscutibile per indicare dove si conclude una proprietà territoriale. Ma la parola “confine”, che deriva etimologicamente dal latino finis, non indica solo la conclusione di qualcosa: “con-fine” significa che quella fine è con-divisa, è in comune, è la stessa per due parti, ognuna delle quali ha una conclusione che cade proprio sulla linea tracciata. Quella linea di divisione, artificiale e convenzionale, non è altro che il prodotto della sovrapposizione di due linee che, separando, finiscono per unire.

Ma chi stabilisce un confine: la natura piazzando qua e là monti, mari e fiumi? No. Non esistono motivazioni morfologiche sufficienti per legittimare la demarcazione di un confine. Ogni confine è sempre il prodotto dell'azione umana e la sua istituzione è un gesto politico, un atto sociale, che presuppone l'esercizio di un potere. Attraverso un confine, un attore territoriale (il più delle volte uno Stato) non solo delimita la sua “proprietà” e la separa da quella di un altro, ma agisce ogni volta per affermare la propria identità, rafforzarla e farla valere dentro e fuori dai propri confini, impedendo a qualunque identità altra o diversa di entrarvi.

Tuttavia, la letteratura e le cronache sono piene di racconti di quanti, ieri come oggi, riescano a superare e scavalcare qualsiasi barriera, mettendo in dubbio la presenza e il potere che l’ha costruita, dando prova dell’inesistenza di confini completamente impermeabili. Al massimo quelli più sensibili si trasformano, si ingrossano, affinché sia sempre più difficile valicarli, e da linee di demarcazione diventano zone di frontiera. La parola frontiera racchiude in sé proprio il sostantivo “fronte”; la frontiera è fronte a, è rivolta verso (contro) qualcosa, verso (contro) qualcuno.

E come si costruisce una frontiera? Un po’ come un palcoscenico pronto ad ospitare la ribalta teatrale. Ne è un esempio la nostra (italiana ed europea) frontiera meridionale. Lampedusa è un perfetto set di spettacoli, troppo spesso tragici, che tengono banco da anni, a intensità diverse. È un set a cui fanno da scenografia le flotte navali che pattugliano il mare, talvolta semplicemente andando avanti e indietro quasi a ricalcare la linea immaginaria; le barche, i gommoni e i pescherecci che sfidano le correnti. Ma anche i corpi delle migliaia di operatori e di quelli, vivi e morti, dei migranti.

È un set in cui rimbombano parole come emergenza, invasione, sbarchi, clandestini che servono solo a montare il palco.

L’emergenza (dal latino e-mergere, cioè che esce inaspettatamente dalla superficie calma delle acque) rimanda a qualcosa di improvviso, a un parossismo e alla fase acuta di un evento. L’Italia invece è diventata ufficialmente paese d’immigrazione nel 1973, 42 anni fa. Parlarne in termini di emergenza dopo tutto questo tempo è  come considerare “Pazza Idea” di Patti Pravo la hit del momento.

L’invasione (dal latino in-vàdere, andare contro), preannuncia il pericolo di una massa umana straniera pronta a riversarsi minacciosa. Secondo i dati del Ministero dell’Interno, però, solo il 10% degli immigranti arriva dal mare, il 20% giunge via terra attraverso le frontiere orientali dell’Europa e circa il 70% arriva in aeroporto, con un visto turistico e con un biglietto di ritorno in patria che non utilizzeranno mai. L’invasione, quindi, al massimo arriverebbe dal cielo.

Gli sbarchi, fanno pensare a chi scendere dalla barca una volta giunto sulla costa. Ma da noi non sbarca proprio nessuno. I barconi vengono intercettati in acqua, alcuni sono carichi di cadaveri, altri ne hanno disseminati lungo il tragitto. Tuttavia lo sbarco è spettacolare: l’idea di chi arriva dal mare, sporco, affaticato, che non ha nulla da perdere, forse arrabbiato con la vita e in una condizione di disperazione, fa decisamente più scena di chi arriva col trolley a Malpensa.

Clandestino, cioè relativo a colui che si nasconde (o dovrebbe farlo), diventa un marchio, uno stigma, una parola chiave utilizzata dalla retorica xenofoba e razzista per costruire muri e frontiere simbolici tra "noi" e "loro", laddove il "noi" identifica i cittadini autoctoni e il "loro" chiunque provenga da un paese extra-comunitario (Stati Uniti, Svizzera, Giappone e Australia naturalmente esclusi). Clandestino è un'etichetta che disumanizza le persone e la disumanizzazione serve a negare i diritti, persino quello di esistere.

Così Lampedusa è qualcosa di più di un confine territoriale, di un limite geografico; è una potente e grottesca rappresentazione condivisa di un limite anche culturale a cui partecipano attori, che forse sarebbe più opportuno chiamare registi, e spettatori, ovvero cittadini (o elettori), a cui deve arrivare il messaggio e che si fanno inevitabilmente condizionare dagli effetti mirabolanti dello spettacolo del confine.

Giuseppe Marino

 

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