La scuola va in guerra, alla faccia del ripudio

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Antonio Mazzeo - Foto: Facebook.com

Abbiamo intervistato Antonio Mazzeo, insegnante e giornalista, che si occupa di educazione alla pace, al disarmo e alla nonviolenza ed è tra i promotori dell’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università.

In passato hai lavorato a progetti di cooperazione allo sviluppo nei Balcani e in Sud America. Come hanno influito queste esperienze sulla tua attività di insegnante e formatore? 

AM: Sicuramente hanno influito tantissimo. Da cooperante ho operato in Bosnia e Albania, Colombia, Cile, Guatemala, Honduras, Uruguay e Cuba. Ho lavorato principalmente a progetti rivolti ai giovani, in collaborazione con partner come organizzazioni non governative locali e centri universitari che lavoravano su problematiche giovanili, particolarmente nei quartieri a rischio. Erano progetti che avevano un legame con la Pedagogia degli oppressi, esperienza di tipo pedagogico fondamentale non solo in America Latina, ma anche per i riflessi che ha avuto dalla fine degli anni ’60, fino ai primi anni ’80 nel continente europeo, soprattutto in Italia. Penso, ad esempio, all'esperienza del MCE (movimento di cooperazione educativa). Buona parte delle attività portate avanti con quei progetti riguardavano i diritti umani, la pace e il disarmo e sono state esperienze fondamentali nella costruzione di buone pratiche.  

Oggi come vengono riproposti nelle scuole questi temi? 

AM: Essendo un insegnante di una certa età e andando ormai verso la pensione, devo rilevare che, purtroppo, ho assistito ad un enorme cambiamento paradigmatico. Non che manchino docenti coraggiosi che portano avanti progetti legate alla pace, al disarmo, alla cooperazione, alla nonviolenza, eccetera, però, perlomeno dal punto di vista istituzionale, direi che la direzione è quasi antitetica. Per questo sostengo che siamo in uno stato di guerra totale. Papa Francesco parlava di una terza guerra mondiale a pezzi, però temo che questi pezzi si stiano rapidamente ricomponendo in un grande scenario di guerra che ci investe direttamente. 

La scuola, l’istruzione, l’informazione, l’università sono parte strutturale del sistema, per cui non hanno potuto non assumere la cultura della guerra, la cultura della difesa, della sicurezza come elementi pedagogici fondanti. Ma stiamo parlando di un percorso iniziato alla fine degli anni ’80, con la prima guerra del Golfo, che ha rappresentato una rottura. Poi c'è stato l’Undici Settembre e le guerre permanenti in Afghanistan e Iraq. Oggi abbiamo la guerra russo-ucraina e il genocidio contro il popolo palestinese.

Quindi non passa giorno che, attraverso la comunicazione, la cultura di guerra non venga trasmessa. Non c'è evento in cui non si legittimi il modello delle forze armate. Pochi giorni fa sono stato a Genova dove si teneva la Festa dello Sport al porto. Ebbene, il 90% degli stand e delle attività erano proposte dalle forze armate e dalle forze di polizia. Ma penso anche al Salone del libro di Torino dov’era presente uno stand delle forze armate. 

In un momento in cui la guerra pervade la società italiana, è ovvio che anche la scuola vada in guerra.  

Come si concretizza nelle attività scolastiche questa militarizzazione?

AM: Sebbene non sia un processo nuovo, negli ultimi due o tre anni ha subito una fortissima accelerazione. Dal 2014 è iniziato a formalizzarsi con la sottoscrizione dei primi protocolli tra il Ministero dell'Istruzione e il Ministero della Difesa. Però negli ultimi anni scolastici, non c'è scuola d'Italia, di ogni ordine e grado, che non viva la pressione delle forze armate e del complesso militare industriale, ovvero dei grandi gruppi e produttori di sistemi d'arma. Mi riferisco ad aziende come Leonardo, direttamente o attraverso le sue due fondazioni (Leonardo-Civiltà delle Macchine e Leonardo Med-Or), con la proposta di veri e propri pacchetti formativi ed educativi. Sono impegnate soprattutto nell’ambito delle materie STEM, rivolgendosi sia a studentesse e studenti, che agli insegnanti. 

Ma le attività proposte sono molteplici, si potrebbe dire che non c'è una sfera della didattica o un tema che non veda salire in cattedra rappresentanti delle forze armate e di polizia. Vorrei ricordare infatti che tali attività non riguardano soltanto le forze armate italiane ma – nelle aree geografiche coinvolte da quelle infrastrutture – anche quelle statunitensi e NATO. Infatti, sono gli stessi appartenenti alle forze NATO o alle forze armate USA ad andare a scuola e proporre le più svariate attività: dall'educazione alimentare, all'educazione sportiva, fino all’educazione di genere. 

Quando non sono i militari ad andare a scuola, si assiste con maggiore frequenza alla partecipazione di intere scolaresche a quei siti, in termini di stage e attività, visite guidate all'interno di infrastrutture militari, persino di industrie belliche. 

Soprattutto per il triennio della scuola secondaria di secondo grado sorge il problema della famigerata alternanza scuola-lavoro, i cosiddetti PCTO. Qui le forze armate italiane, le basi USA e quelle NATO, diventano il luogo di pratica di questi percorsi. Inoltre, le grandi industrie belliche o le aziende più piccole che producono componenti per l'industria bellica aprono con sempre maggiore frequenza le proprie porte alla partecipazione delle scolaresche. Ad esempio, recentemente abbiamo denunciato il PCTO di istituti alberghieri che prevedono il coinvolgimento degli studenti nella preparazione dei catering all'interno di eventi militari. 

Oltre a stage e tirocini, ci sono poi le borse di studio che queste aziende assegnano alle studentesse e agli studenti. Ci sono veri e propri percorsi formativi, pacchetti di 60 o 80 ore di formazione diretta, in stabilimenti o online, promossi da industrie belliche o da consorzi di industrie belliche. 

Ci sono scuole che hanno istituito indirizzi di formazione già dal primo anno proprio legato alla manutenzione o alla realizzazione di armi leggere: penso in particolare alla Val Trompia, all’area di Brescia, nota proprio per questo tipo di produzione. 

Come se non bastasse, a Roma da due anni è stato avviato il progetto di un liceo scientifico digitale sperimentale, che dovrebbe poi essere esteso con una scuola in ogni Regione.  Il piano didattico, la programmazione e parte degli insegnanti vengono forniti dal gruppo Leonardo Spa e dalla Fondazione Leonardo-Civiltà delle Macchine. 

 Abbiamo accennato a quegli insegnanti che cercano di invertire la rotta, andando controcorrente. Come sta allora l’educazione alla pace nelle scuole? 

AM: Questi insegnanti sono il fulcro. Le loro attività sono molto importanti, ma sono attività resistenziali, che non vengono condivise e che non trovano il sostegno istituzionale da parte del Ministero. Basti pensare alle nuove linee guida sull'educazione civica, in cui la parola pace è scomparsa.

D’altra parte, le attività resistenziali di questi insegnanti rappresentano anche l'antidoto. Infatti, nonostante gli investimenti per militarizzare le coscienze e per convincere le nuove generazioni sulla legittimità della guerra, vediamo che i giovani e le giovani sono profondamente consapevoli di essere in uno stato di guerra, profondamente preoccupati e ripudiano tutto questo. 

Quindi, anche se il clima non è paragonabile a quello degli anni ’80, si continua a fare attività educativa nonostante tutti gli ostacoli. I tempi sono cambiati e la scuola non può essere pensata come un corpo estraneo ai modelli sociali e culturali dominanti. Siamo in un Paese in guerra che sostiene direttamente le operazioni in Ucraina e in Medio Oriente. Sui vari documenti si legge nero su bianco che si punta ad affermare la cosiddetta cultura della difesa e della sicurezza. Questo porta i cittadini e le cittadine ad accettare piani come il ReArm Europe e sempre maggiori investimenti nella produzione bellica. Ma anche ad accettare tagli alla spesa sociale e l’aumento della precarietà sia lavorativa che della vita stessa, cioè la possibilità di rimettere in discussione il fatto che per la patria si può morire e si può uccidere. 

Eppure le nuove generazioni, nonostante un bombardamento di messaggi contrari che dura da vent'anni, continuano a ritenere la guerra un crimine e un'ignominia. Credo che da parte loro ci sia anche la presa di coscienza che la prossima guerra potrebbe davvero chiude la storia dell'umanità. Una consapevolezza che è il frutto anche delle attività proposte da quegli insegnanti. Perché la scuola non può non essere il luogo di costruzione del futuro, attraverso quei valori di pace e disarmo. E la guerra è l’antitesi al futuro. 

Il grandissimo senso di impotenza rispetto a quello che succede a Gaza ha contribuito alla consapevolezza di questa cultura della guerra e alla sua opposizione da parte delle giovani generazioni? 

AM: Io credo che il genocidios del popolo palestinese sia stato un momento fondamentale. Non tanto per una presa di coscienza, che c’era già da prima, ma dal punto di vista emotivo, rispetto alla drammaticità di un crimine che si sta perpetrando. Penso che i giovani abbiano avuto anche la capacità di cogliere che non si tratta di qualcosa di altro e di distante, ma che ci riguarda direttamente perché riguarda quei governi, quelle forze politiche e quelle industrie belliche che sono a casa nostra. Credo che i giovani dei licei e delle università abbiano avuto questa enorme capacità di denunciare che non è solo Netanyahu ad avere le mani sporche di sangue. Le mani sporche di sangue le ha anche il popolo italiano, attraverso la scelta di continuare a sostenere Israele portata avanti dai nostri governi e il sostegno all’export di armi a Israele da parte delle industrie militari e dei gruppi finanziari e bancari. 

Maddalena D'Aquilio

Laureata in filosofia all'Università di Trento, sono un'avida lettrice e una ricercatrice di storie da ascoltare e da raccontare. Viaggiatrice indomita, sono sempre "sospesa fra voglie alternate di andare e restare" (come cantava Guccini), così appena posso metto insieme la mia piccola valigia e parto… finora ho viaggiato in Europa e in America Latina e ho vissuto a Malta, Albania e Australia, ma non vedo l'ora di scoprire nuove terre e nuove culture. Amo la diversità in tutte le sue forme. Scrivere è la mia passione e quando lo faccio vado a dormire soddisfatta. Così scrivo sempre e a proposito di tutto. Nel resto del tempo faccio workout e cerco di stare nella natura il più possibile. Odio le ingiustizie e sogno un futuro green.

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