La democrazia dei referendum perde colpi

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I referendum sono armi a doppio taglio. Per chi li indice (soprattutto nei paesi democratici), per chi è costretto a indirli, e per il popolo che deve subirli (soprattutto nei regimi autoritari). L’ex premier britannico Cameron, vincitore alla grande delle elezioni del 2015, decide inopinatamente di portare la Gran Bretagna al voto per la permanenza nell’Unione Europea. Una consultazione non necessaria, un voto politico pensato per rafforzare il suo ruolo e per silenziare l’opposizione interna euroscettica. Sappiamo come è andata a finire: Cameron ha concluso la sua carriera.

Una pensata simile l’aveva avuta il presidente francese Chirac nel 2005 sottoponendo al voto popolare la firma alla Costituzione europea: contrariamente alle previsioni presidenziali, la maggioranza si schierò per il No dando il primo importante colpo al processo di integrazione. Nel 2014 la Scozia ha rigettato l’ipotesi della sua indipendenza dal Regno Unito. L’anno successivo il referendum farsa in Grecia. La schiacciante vittoria di chi si opponeva all’accordo firmato con l’Unione Europea è servita paradossalmente a rafforzare Tsipras, capace poi di sottoscrivere qualche mese dopo un’intesa che andava nella direzione precedente, osteggiata dai greci.

Parlando di consultazioni propagandistiche – ma non per questo meno inquietanti – ecco il recente plebiscito anti migranti voluto dal premier magiaro Orbàn: dopo una campagna elettorale basata sulla menzogna e sulla paura (con slogan tratti direttamente dagli anni ’30), la maggior parte degli ungheresi ha disertato le urne. Orbàn esce sconfitto, benché impressioni rendersi conto che poco meno del 40% dell’elettorato la pensa come lui.

Un altro referendum – passato quasi sotto silenzio – ha riguardato la Repubblica Srpska, una delle 2 entità che costituiscono la Bosnia. Ebbene, il 24 settembre scorso, il 99,8% della popolazione ha votato per fissare la festa “nazionale” il 9 gennaio, ricordando il giorno in cui i serbi di Bosnia proclamarono l’indipendenza unilaterale. Era il 1992, fu l’inizio della guerra etnica. Peccato che quella data sia vissuta come una tragedia per l’altra componente del Paese uscito dagli accordi di Dayton, cioè quella dei croato-mussulmani. Non conta nulla che quel referendum sia stato preventivamente dichiarato incostituzionale. I fantasmi ritornano.

Innumerevoli sono le messe in scena con cui i regimi autoritari chiamano al voto il popolo. Le repubbliche ex sovietiche sono specializzate in referendum, di solito sul prolungamento dei mandati presidenziali. L’ultimo è avvenuto in settembre in Azerbaijan. Esito scontato, potere rafforzato. E cittadino gabbato.

Cosa dire però del referendum con cui, seppur di strettissima misura, il popolo colombiano ha respinto l’accordo di pace con la guerriglia delle Farc, per porre fine a un conflitto lungo più di 50 anni? Possibile che si possa dire no alla pace? In realtà la questione è più complicata. Viene da chiedersi però se sia giusto sottoporre direttamente alla gente il varo effettivo di accordi costati anni e anni di lavoro.

La Costituzione italiana vieta i referendum inerenti ai trattati internazionali. C’è già il parlamento, ci sono già i nostri rappresentanti eletti. Oggi tuttavia è l’era della democrazia diretta. La sovranità non appartiene forse al popolo? Ed ecco la litania contro i burocrati, contro gli intellettuali (stranamente sempre “di sinistra”) che vogliono impedire al popolo di esprimersi. Nessuna analisi critica, da parte di questi autoproclamatisi difensori del popolo, degli abusi di questo tipo di consultazioni, di campagne elettorali impresentabili dove di sicuro vincono gli insulti e la confusione.

Il voto trattato come un’ordalia ci riporta alla barbarie, all’idea che ogni cosa si possa risolvere con la forza, una volta per tutte, subito, immediatamente. Proprio l’abitudine, diffusissima nell’era di internet, di non prendersi neppure 3 minuti per pensare prima di scegliere, è l’esatto contrario della prassi democratica che prevede tempo per l’esposizione dei termini del problema, tempo per la conversazione e dibattito pubblico, tempo per una decisione ponderata del singolo.

D’altra parte non si può pensare a una politica incapace di convincere i cittadini. Una politica che ha paura del responso popolare. Perché siamo di fronte all’allargamento del fossato che circonda il Palazzo? Perché le classi dirigenti non hanno il polso della situazione e non comprendono gli umori della gente? Questo forse è il problema più urgente. I cittadini dovrebbero essere resi protagonisti delle loro decisioni, altrimenti le elezioni stesse saranno messe in discussione. La chiamata alle urne, da sola, non garantisce la democrazia; anzi, a volte, è un inganno per distruggerla.

Articolo apparso sul quotidiano “Trentino”

Piergiorgio Cattani

Nato a Trento il 24 maggio 1976. Laureato in Lettere Moderne (1999) e poi in Filosofia e linguaggi della modernità (2005) presso l’Università degli studi di Trento, lavora come giornalista e libero professionista. Scrive su quotidiani e riviste locali e nazionali. Ha iniziato a collaborare con Fondazione Fontana Onlus nel 2010. Dal 2013 al 2020 è stato il direttore del portale Unimondo, un progetto editoriale di Fondazione Fontana. Attivo nel mondo del volontariato, della politica e della cultura è stato presidente di "Futura" e dell’ “Associazione Oscar Romero”. Ha scritto numerosi saggi su tematiche filosofiche, religiose, etiche e politiche ed è autore di libri inerenti ai suoi molti campi di interesse. Ci ha lasciati l'8 novembre 2020.

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