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L’Unione europea dopo lo shock della Brexit
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l presente è noto a tutti: il 24 Giugno, con un risultato che ha spiazzato buona parte della stampa internazionale, il Regno Unito ha detto addio all’Unione europea. Nonostante la prevalenza degli unionisti in Scozia e Irlanda del Nord, il voto inglese e gallese ha segnato l’inizio delle procedure di uscita dalla casa comune europea, in cui i sudditi di Sua Maestà avevano fatto ingresso -un po’ riluttanti- nel gennaio del 1973. La sorpresa è stata grande. Qualche commentatore ha parlato di «shock». Eppure, euroscettici prima ancora che l’euroscetticismo diventasse una moda continentale, gli inglesi non hanno mai fatto mistero della loro antipatia per il processo politico di integrazione. Ma il salto di qualità è evidente: è stato infranto un tabù. Nessun paese aveva mai abbandonato l’Ue. Si è smarrita, così, l’unica certezza che accompagnasse le scelte di fondo dei governi europei, in questi anni di globalizzazione avanzata e difficile: la sopravvivenza indiscutibile dell’edificio comunitario. Ora, nessuna strada può essere esclusa a priori. Soprattutto perché, al netto delle preoccupazioni il successo montante dei populismi, il colpo più doloroso al progetto unionista è venuto dal leader di un partito “di sistema”, il conservatore David Cameron, che non ha esitato a mettere a repentaglio la tenuta europea -così come gli interessi del suo stesso Paese- per estorcere una serie di imbarazzanti privilegi ai Palazzi di Bruxelles, a fini elettorali. Se a questo si uniscono le perplessità per la scelta di destinare 3 miliardi di euro alla Turchia di Recep Tayyip Erdoğan, invece di gestire l’emergenza migranti sul territorio europeo, elargendo i medesimi fondi a paesi come l’Italia e la Grecia, si ha la percezione di quanto sia intenso l’attuale senso di confusione.
Il passato è stato dimenticato da molti. E non ci si riferisce al sogno di Rossi, Spinelli e Colorni, forse troppo ambizioso per una generazione post-bellica europea che non si è rivelata sufficientemente grata al dono di pace e ricostruzione dei padri fondatori, quanto al progetto -abortito- di una costituzione per l’Europa. Era il 29 maggio 2005, quando il popolo francese disse “no” alla ratifica del Trattato costituzionale, presto seguito dagli olandesi, che espressero il loro diniego nel giugno dello stesso anno. Quella battuta d’arresto è stato a lungo interpretata come un semplice passo falso, risolvibile nel volgere di qualche anno, a seguito di qualche riflessione. Solo recentemente lo si sta rivalutando, nonostante i limiti e le cautele di un testo senz’alto imperfetto, come il de profundis di una concezione veramente unitaria. Da allora, l’Europa è rimasta a metà del guado: non più mera area di libero scambio, non ancora protagonista -presente e ascoltata- della scena politica internazionale. A detta di alcuni, proprio in quel disegno incompiuto possono essere rintracciate le radici dell’attuale assetto “germanocentrico”, favorito dal permanere di un’idea puramente mercantilistica dell’Unione, in cui la nazione più forte dal punto di vista produttivo fa la parte del leone anche in campo politico, dettando le scelte di tutti. È una visione che il Regno Unito ha lungamente difeso, salvo accorgersi in extremis che questa linea di pensiero stava portando a una sua progressiva marginalizzazione. Ma era già troppo tardi: dal referendum francese a quello britannico l’avvenire di un progetto europeo comune si faceva via via più difficile.
Il futuro interessa pochi. Ed è questo il vero dramma di un Continente frammentato, che rischia di essere tagliato fuori dalla competizione fra superpotenze demografiche come Cina, India, Brasile e Stati Uniti: miliardi di persone, che si traducono in mercati più dinamici e remunerativi. Ecco il vero guaio dell’Europa: la sottovalutazione dei numeri, l’incapacità di approdare a una cultura diffusa che colga l’odierna disparità di mezzi fra i piccoli stati dell’ancien régime novecentesco e le sfide di una mondializzazione in atto da tempo, che premia solo i grandi attori. Un modo per uscirne forse ci sarebbe: ricominciare. Puntare su un’integrazione geograficamente più circoscritta, ma anche più forte. In altre parole: creare un’Unione di volonterosi, con un numero inferiore di membri, tra di essi più coesi. I trattati, peraltro, consentono una fusione a più velocità, con stati che si legano prima di altri e meglio degli altri, ergendosi a modello virtuoso. Quale sarebbe l’orizzonte di questa nuova Europa? Sempre lo stesso, il più sottovalutato: il Mediterraneo. Un’area costituita da decine di milioni di giovani, che non attendono altro che migliorare la propria condizione attraverso il lavoro e un dialogo più aperto fra una sponda e l’altra del mare comune. Ma è solo un sogno, almeno per ora. Le scadenze vere e prossime hanno una prospettiva molto più limitata. Sono quelle recentemente indicate da Enrico Mentana, in un post su Facebook che ha goduto di notevole attenzione: la riedizione delle presidenziali austriache, invalidate per irregolarità dalla Corte costituzionale del Paese alpino, e il referendum indetto da Budapest sul ricollocamento obbligatorio dei cittadini non ungheresi. Due appuntamenti cruciali per una sola data: il 2 ottobre. Sapremo cavarcela? Inutile fare previsioni. Meglio pensare a ciò che è già accaduto. Meglio volgere lo sguardo Oltremanica. Perché Brexit può anche essere una grande occasione per mostrare ai riottosi e ai diffidenti che fuori dall’Ue si sta peggio. Molto peggio. E che la pretesa di risolvere i difetti dell’Unione sabotando l’Unione è pari a quella di un pazzo che demolisce la casa perché il tetto perde: un’assurdità. Ma forse è proprio questo che ci inquieta: di questi tempi, la razionalità è un rifugio assai insicuro.