I bambini talibè di Dakar

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Dakar (Senegal) - Del Senegal non si parla molto. E’ uno Stato relativamente tranquillo, non ci sono grandi tensioni sociali, guerre o epidemie in corso. La comunità musulmana vive in armonia con quella cristiana e nella terra della téranga (“accoglienza” in wolof, la lingua locale) in molti vengono per surf e safari. 

Eppure la gente se ne va. Terra e mare: Bamako, Agadez e poi su fino alla Libia, direzione Europa.  Peccato che l’Italia, grazie agli ignobili decreti Minniti-Orlando e Salvini, non riconosca il diritto ad un permesso di soggiorno ai profughi senegalesi che approdano sulle nostre coste perché non considerati meritevoli di protezione umanitaria. 

La povertà, a quanto pare, non è un requisito sufficiente per riscattare la propria vita in occidente. Sì, povertà, perché tra villaggi turistici e resort, c’è anche chi soffre la fame e la sete, come in ogni nazione povera che si rispetti, i più vulnerabili sono i bambini.

In tutto il Senegal le famiglie sono numerose, un po’ per la poligamia che caratterizza ancora molti nuclei famigliari (lo Stato tollera fino a 4 mogli), un po’ per l’alto tasso di abbandono scolastico sia nei distretti urbani che nelle zone più rurali, cosa che porta bambine e ragazze a dedicarsi presto, troppo presto, alle faccende domestiche e alla famiglia. 

Capita spesso, infatti, tra le strade della polverosa Dakar, di incontrare gruppi di ragazze dalle età più varie intente a spostarsi con un fagottino attaccato alla schiena. Un fratellino? Un figlio?  Quando però le cose si mettono male, molti bambini vengono abbandonati e a prendersi cura di loro ci pensano i cosiddetti “marabout”.

marabout (dall’arabo al-murãbit, asceta) sono una sorta di imàm locali che, tra religione musulmana  e culti tradizionali, “istruiscono” i bambini di strada: orfani, bambini abbandonati o inviati volontariamente dai genitori per praticare lo studio del Corano nelle cosiddette daara, le scuole coraniche diffuse in tutta l’Africa Occidentale.

Loro sono i bambini talibé.

Questo termine significa “discepolo”, anche se di devozione verso lo studio ce n’è poca, non per negligenza dei piccoli scolari ma perché lo studio purtroppo è solo una copertura su ciò che spesso accade in queste scuole. Infatti, fin da piccoli, i talibé vengono avviati alla pratica dell’elemosina: per mangiare devono mendicare fino a 1.000 FCFA al giorno (un paio di euro), pena il digiuno. E’ impossibile non incontrarli, anche nei quartieri più benestanti della capitale; testa rasata e un grande barattolo giallo in mano. 

Purtroppo, oltre al terribile supplizio dell’elemosina, al rientro dalla giornata passata in strada possono subire violenze fisiche o abusi sessuali: se in giornata non è stata racimolata la cifra prevista o se i versetti del corano non sono stati memorizzati alla perfezione, scatta la punizione corporale. Human Rights Watch, in un rapporto uscito quest’anno, stima che in Senegal circa 100.000 bambini talibé siano costretti dai loro maestri a mendicare dei soldi o del riso per sfamarsi. Lo stesso studio riferisce che nel solo periodo 2017-2018 nel paese ci sono stati almeno 61 casi di percosse o abusi fisici, 15 di violenze sessuali e 14 bambini imprigionati o letteralmente incatenati all’interno delle scuole coraniche. 

Per fortuna  non è sempre così, ci sono numerosi marabout che si prendono veramente cura dei bambini talibè. Chi è più fortunato ha la possibilità di seguire un’istruzione e crescere in un contesto protetto, con veri maestri coranici che rispettano i loro diritti e necessità. Ma non è la norma.  Ismael, un pescatore di Gorée, l’isola da dove per secoli sono salpate le navi negriere battenti bandiere europee, racconta che c’è chi addirittura recupera orfani e bambini abbandonati da altri paesi dell’Africa saheliana e si reca in Senegal appositamente per aprire delle scuole coraniche finalizzate al lucro. 

Chi ha la fortuna di uscire da questo inferno, ne trova un secondo appena raggiunta la maggiore età: non avendo seguito una scolarizzazione, a molti ragazzi non resta che delinquere, diventare a loro volta maestri coranici, o partire.  Abdullaye fa il taxista a Ngor, quartiere relativamente benestante di Dakar, “Mio fratello vive in Italia. Ci è arrivato come immigrato, con la barca. Ha fatto bene - dice -perché qua a Dakar non c’è niente”. 

Lucia Michelini

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